Il coronavirus verrà ricordato anche per aver riacceso, l’ennesima volta, i riflettori sulla rete internet italiana. Il lockdown ci ha obbligato a navigare di più in rete, per lavoro o per svagarsi a casa, con una crescita media del traffico di circa il 50-60 per cento.
Un boom che ha messo a nudo l’importanza di poter contare su una rete veloce e affidabile, come non è stata in molte zone d’Italia. Della gestione della rete italiana se ne discute da anni, ma con il passare del tempo trovare una soluzione diventa sempre più complicato. Individuare un operatore che possa gestire e costruire la rete in fibra è un problema non da poco in cui si intercettano diverse dimensioni: la prospettiva tecnologica, le volontà del mercato, il tema della concorrenza, la regolamentazione, la politica industriale e la sostenibilità finanziaria.
Oggi in Italia esistono due reti infrastrutturali per l’accesso a internet: quella di Telecom Italia (ora Tim) e quella di Open fiber. Entrambe sono incomplete perché non permettono ovunque l’utilizzo dei servizi digitali alla velocità considerata a prova di futuro: un gigabit al secondo, cioè un miliardo di bit, che garantisce la fibra ottica.
Il ruolo centrale è di Cassa depositi e prestiti, che ha i piedi in due scarpe: il 50 per cento in Open fiber (il resto è di Enel) e poco meno del 10 per cento in Tim. Fonti interne a Cdp sentite da Linkiesta dicono che, nonostante l’azienda sia molto favorevole a un piano per mettere assieme le due reti, per ora piani concreti non esistono; della proposta – in diverse forme – si discute da tempo anche tra gli azionisti di Open fiber
Tuttavia la vera domanda da porsi è un’altra: una rete unica per farne cosa? L’obiettivo di avere un’unica rete infrastrutturale è cosa buona e giusta, condivisa da molti esperti e anche dalle stesse Enel e Cassa depositi e prestiti. Ma non a ogni condizione.
La società della rete sarebbe privata e in mano a Telecom che ha sempre ribadito di voler mantenere il controllo? Oppure il possibile rafforzamento della partecipazione di Cassa depositi e prestiti renderebbe l’azienda sostanzialmente a guida pubblica? E, ancor più cruciale, nel frattempo a Telecom verrebbe chiesto di scorporare e vendere il proprio settore di servizi? La differenza è sostanziale.
Nel 1998 la privatizzazione dell’allora monopolista delle telecomunicazioni è stata costruita attorno alla permanenza di un operatore verticalmente integrato, che cioè allo stesso tempo vende l’accesso alla rete agli operatori e fornisce servizi agli utenti finali che aderiscono alle sue offerte, che erano i vecchi monopolisti pubblici che si aprivano alla concorrenza.
«Così come è successo in tutto il resto del mondo – spiega Michele Polo, economista Bocconi specializzato in economia industriale e regolamentazione del mercato – tranne in un paio di paesi in cui si è poi fatta marcia indietro». Ma se un operatore fa il grossista della rete alle stesse aziende con cui concorre per accaparrarsi i clienti finali è un grosso problema per la concorrenza: le altre aziende potrebbero infatti essere soggette a manipolazioni di mercato.
«Per essere concreti, pensiamo a Sky Italia che ha da poco lanciato il proprio servizio di connessione appoggiandosi alla rete di Open fiber. Non avrebbe mai potuto farlo, a meno di non rendersi dipendente da un proprio concorrente, se sul mercato dell’accesso alla rete fosse stato presente solo Telecom che allo stesso tempo offre servizi televisivi attraverso Tim Vision, con cui Sky compete», dice Polo.
Proprio per questo è necessario avere una concorrenza infrastrutturale. Vale a dire una situazione in cui più aziende costruiscono la rete (come succede da quando in Italia opera Open fiber) e garantiscono parità di accesso agli operatori retail. D’altronde la posizione di monopolista di Telecom ha anche scoraggiato per anni gli investimenti su cui, secondo Polo, «lo sviluppo è proceduto abbastanza lentamente e attraverso soluzioni tecnologiche troppo prudenti».
Vale a dire la tecnologia Fttc (“fiber to the cabinet”, cioè fibra fino alla centralina da cui parte un cavo in vecchio rame che raggiunge l’abitazione), sui cui Telecom ha sempre puntato per valorizzare la sua rete in rame e che è dieci volte più lenta della vera fibra. Per questo, quattro anni fa, era nato Open fiber.
E peraltro gli effetti sulla concorrenza sembrano esserci stati. In tre anni la compagnia ha cablato 8,6 milioni di unità immobiliari, costruendo – secondo la stessa Open fiber – la terza rete in fibra ottica d’Europa dopo Telefonica e Orange. Anche i dati di copertura della banda ultralarga confermano l’accelerazione degli ultimi anni: nel 2016 l’Italia era sostanzialmente priva di copertura di rete da vera fibra, mentre nel 2019 ha raggiunto il 23 per cento.
Nel 2018 la crescita della copertura italiana era stata la più elevata di tutta Europa. Una volta partita l’operazione, anche Tim si è accodata rilanciando i propri investimenti in vera fibra senza rame, sia nelle città – dove il mercato è florido – sia in quelle zone che aveva dichiarato fuori dal proprio interesse perché non profittevoli in cui Open fiber ha vinto i bandi e costruito parte della rete.
O almeno, in queste zone Telecom ha tentato di investire – cambiando idea – prima di essere multata a marzo per 116 milioni dall’Antitrust per pratiche anticoncorrenziali nei confronti della compagnia di Enel e Cdp.
Se dunque la concorrenza infrastrutturale è utile, perché in tanti sostengono la necessità di una rete unica? Quella attuale è una situazione molto mista e probabilmente non sostenibile nel lungo termine, a detta degli esperti. Open fiber ha vinto i bandi per le aree bianche a prezzi relativamente bassi rispetto alla base d’asta. E la condizione del mercato non è delle migliori.
In Italia, infatti, oltre che con l’offerta di servizi digitali abbiamo problemi anche con la domanda. Secondo gli ultimi dati Desi della Commissione europea solo il 74 per cento degli italiani usa abitualmente internet e, quanto all’uso delle tecnologie digitali da parte delle imprese, l’Italia occupa la ventitreesima posizione in Europa.
Questo è ancora più vero nelle aree bianche, spesso territori montuosi e zone rurali in cui la domanda di servizi è minore. Con conseguenti problemi finanziari per chi ci va a investire, come Open fiber: se nessuna famiglia o impresa acquisterà un abbonamento a banda ultralarga, nessuna compagnia di telecomunicazioni comprerà l’accesso alla rete dal grossista, con conseguenti danni sui ricavi.
Il problema finanziario non è il solo motivo per cui si spinge verso una rete unica. È la transizione verso il 5G a cambiare le cose. Se fino a ieri avere nel mercato un operatore verticalmente integrato che si occupa sia di rete che di servizi era utile perché garantiva l’incentivo a mantenere un’infrastruttura di qualità, utilizzata anche dall’operatore stesso, le nuove tecnologie cambiano il quadro.
Lo sviluppo tecnologico del 5G sposta, secondo diversi esperti, l’intelligenza – e quindi il valore aggiunto – da chi gestisce e governa la rete, ai gestori dei servizi che dovranno combinare le diverse risorse fisse e mobili per garantire una connessione stabile e veloce. La rete in sé perde dunque di intelligenza, e diventa paragonabile all’infrastruttura della luce e del gas che è in mano a un unico soggetto monopolista, con Terna e Snam.
Ecco che dunque diventa evidente la necessità di una rete unica. A questo punto si potrebbe decidere se affidarla a un’azienda privata (solo grossista, ovviamente) attraverso bandi periodici e contributi pubblici per le aree bianche. O a una realtà pubblica, su cui il controllo potrebbe essere maggiore, ma l’efficienza e la capacità di costruire infrastrutture potrebbero essere limitate (come sappiamo bene in Italia).
La rete unica però resta fondamentale secondo molti perché – come sostiene il professor Alfonso Fuggetta, ordinario di informatica al Politecnico di Milano, «se altri paesi hanno avuto la fortuna di avere già diverse reti a disposizione grazie alla diffusione di tv via cavo, assenti in Italia dove la televisione viaggia con il digitale terrestre e il satellite, nel nostro paese non possiamo permetterci una duplicazione degli investimenti per la fibra. Lo stesso sta accadendo nel mercato della telefonia, in cui diverse compagnie stanno iniziando a condividere le torri per restare sul mercato».
Però a una condizione che mette d’accordo tutti, tranne forse la stessa Telecom: la compagnia che dovesse assumere questo ruolo non potrebbe rimanere anche nel mercato degli utenti finali. Sarebbe paradossale, perché torneremmo indietro di venti anni e potremmo dire addio alla rete in fibra, vista la scarsa determinazione fin qui dimostrata da Telecom su questo prodotto.
E d’altra parte anche l’operazione di scorporo della rete da Tim sarebbe complessa: secondo Stefano Quintarelli, informatico e imprenditore, Telecom – che ha un problema industriale – ha sulle spalle un grosso debito di cui la rete in rame rappresenta la garanzia. Convincere gli azionisti a disfarsene non sarebbe semplice: quelli che guardano al lungo periodo potrebbero essere d’accordo, ma i fondi di investimento (come Elliot) sarebbe difficile convincerli. Per questo il rischio è che i soldi debba di nuovo metterceli lo stato.
È proprio su questo che alcuni promotori della rete unica, poco interessati alla concorrenza, sono ambigui: se Open fiber rientrasse in Tim, gli si imporrebbe di scorporare i servizi? Altrimenti la compagnia, pubblica o privata, si trasformerebbe in un Giano bifronte con i piedi in entrambi i mercati: quello business e quello retail. Con enormi danni per le aziende concorrenti, e dunque per i consumatori.