Covid permettendo, la prossima settimana avrà inizio l’udienza preliminare del caso Bibbiano, una vicenda giudiziaria che poco più di un anno fa, in un’altra epoca storica, irrimediabilmente lontana, terremotò anche la stagione politica con la Lega e i Cinquestelle pronti a cavalcare l’indagine in una crociata contro i «ladri di bambini» finanziati dalle amministrazioni del Partito democratico.
Il processo che si apre venerdì 30 ottobre vede come si suol dire “alla sbarra” una ventina di imputati gravati complessivamente di 108 capi d’accusa che vanno da reati amministrativi come falsi ed abuso d’ufficio ad accuse di depistaggio e frode processuale.
Il caso Bibbiano investe l’operato di centri di assistenza sociale e di operatori sanitari chiamati a coadiuvare la magistratura nella delicatissima materia degli affidi dei minori vittime di maltrattamenti o più semplicemente con la sfortuna di genitori gravemente inadeguati.
La Procura di Reggio Emilia denuncia una serie di gravi condotte con cui gli imputati (psicologi ed assistenti sociali), redigendo referti e relazioni falsi, avrebbero determinato la sottrazione ad alcuni genitori dei figli affidati ad altre famiglie. Avrebbero insomma creato emergenze inesistenti per giustificare consulenze e compensi.
I servizi sociali e gli psicologi hanno svolto la loro attività in base a contratti di servizi pubblici stipulati coi comuni della Val d’Enza e ciò ha comportato l’incriminazione del sindaco del Pd di Bibbiano e le roventi polemiche politiche che ne seguirono, compreso lo scontro tra i Cinquestelle e il partito di Zingaretti, definito da Di Maio «il partito di Bibbiano» con relativo corredo di querele. Ancora non era il tempo della scoperta di Giuseppe Conte come nuovo leader della sinistra.
Lontani sono quei tempi, in compenso il caso Bibbiano non sembra aver esaurito la sua micidiale carica virale di contagio politico. Dopo il Pd oggi sembra infatti il turno dell’improvvido coinvolgimento del glorioso Partito radicale che si è fatto carico, dopo i casi di Enzo Tortora e Toni Negri negli anni eroici di Pannella, della storia personale di uno (e va sottolineato uno su ventitrè) degli imputati: il dottor Claudio Foti da Moncalieri.
Ebbene tale iniziativa, che secondo i suoi propugnatori sarebbe in linea con una tradizione indubbiamente gloriosa, è un incisivo esempio di una certa deriva causata da un malinteso senso del garantismo che rischia di causare danni irreparabili a una giusta battaglia, confondendo situazioni diverse in una sorta di negazionismo giudiziario a prescindere.
Innanzitutto la scelta del protagonista della crociata: il dottor Foti, psicologo specializzato nella delicata materia di abuso sui minori, non è il principale imputato, come sottolinea il suo difensore Giuseppe Rossodivita, avvocato e per coincidenza esponente di punta del Partito radicale, in quanto gravato da soli tre capi d’accusa su 108.
Egli è semplicemente quello più noto e illustre, in quanto ideatore e caposcuola di un metodo cosiddetto scientifico di «emersione dei ricordi rimossi dell’abuso». Già questa sottolineatura causa una sorta di singolare discriminazione con gli altri imputati che pur gravati da un numero maggiore di accuse sono suoi collaboratori e seguaci (il termine che si addice ad una setta non è scelto a caso), ma la cui causa, per motivi difficili da capire, non suscita alcuna mobilitazione e anzi da cui pare Foti prenda le distanze.
A un orecchio attento, ad esempio, non sfugge come Rossodivita abbia preso le distanze dalla strategia dei principali imputati come Federica Aghinolfi, la responsabile dei servizi sociali della Val d’Enza la cui difesa (affidata al profesor Oliviero Mazza e all’avvocato Rossella Ognibene), intende sollevare la questione dell’incompatibilità ambientale del Tribunale di Reggio Emilia, lamentando come la «grave situazione locale che si è creata intorno ai cosiddetti fatti di Bibbiano sia incompatibile con il sereno svolgimento del processo penale». Il processo ci dirà se è vera la sensazione che Foti voglia prendere le distanze dai suoi ex collaboratori che gli hanno consentito di operare e stipulare contratti di consulenza in Val d’Enza.
Il dottor Foti (laureato, come conferma il difensore, in lettere e non in psicologia) è il fondatore del centro Hansel e Gretel (il nome già illustra eloquentemente la visione del mondo e le finalità) presso cui si sono formati professionalmente numerosi adepti inclusi nella schiera di esperti che hanno tragicamente caratterizzato alcuni dei più drammatici errori giudiziari del passato: dalle inchieste sulle sette della bassa modenese (ben descritti da Pablo Trincia nel libro Veleno, Einaudi 2018) ai casi degli asili Abba e Sorelli di Brescia, alla scuola materna Rovere di Rignano Flaminio, solo per elencare i più noti ma purtroppo non gli unici.
Una decina di anni fa, infatti, Foti e il suo centro godevano di un certo credito presso gli uffici giudiziari di mezza Italia, il che portò il fondatore a tenere lezioni addirittura presso la Scuola Superiore della Magistratura, l’istituto di formazione dei magistrati.
Forse anche a causa degli esiti delle inchieste prima citate, Foti non è stato più invitato negli ultimi anni e le sue pratiche ”scientifiche” sono state oggetto di un approccio assai più prudente per non dire di un radicale ripensamento, almeno presso alcuni degli uffici giudiziari (non tutti).
Il metodo Foti, e la prassi inquirente a lui connessa, parte dal presupposto che il mondo pulluli di minori abusati e maltrattati e che la missione degli esperti illuminati debba essere quella di rivoltare come un calzino (ricorda qualcosa?) la memoria rimossa delle vittime che per paura o un meccanismo di auto-difesa celino terribili ricordi di violenze subite.
Tale sistema che sarebbe secondo lo stesso ideatore una mera terapia per la cura dei traumi è stata invece impropriamente utilizzata (e viene ancora usata) in indagini penali come prova o almeno indizio dell’esistenza di reati commessi sui minori. Con tale metodologia, i minori sono indotti a ricordare abusi e violenze di cui secondo i cultori della pratica essi si sarebbero dimenticati ma che dovranno recuperare, beninteso per il loro bene e per assicurare alla giustizia presunti mostri che altrimenti la farebbero franca.
Nonostante i protocolli più accreditati boccino tale prassi come gravemente scorretta e fuorviante, a essa Foti e i suoi discepoli non hanno mai rinunciato.
Di come funzionino e si articolino tali tecniche vi è un’eloquente prova agli atti del processo, in quanto la stessa difesa del professor Foti si è premurata di fornire un po’ di registrazioni.
Esse sono prove a carico, utilizzate oltre che dalla procura che ha redatto l’atto di accusa, anche dal Tribunale del riesame che non ha apprezzato tali tecniche, riportandone i particolari più agghiaccianti, quali l’imposizione ossessiva e reiterata di ricordare con l’ammissione di una delle vittime di essersi indotta alla fine a accusare falsamente il padre di abusi.
Questo il quadro, delineato con apprezzabile distacco si badi bene da un giudice terzo, il Tribunale del riesame di Bologna, che ha ritenuto insussistente l’accusa di depistaggio e frode processuale e revocato la misura dei domiciliari. Dunque non propriamente dei colpevolisti prevenuti verso il dottore, anzi appare chiaro, invece, che Foti abbia trovato nei giudici di Bologna un puntuale, attento scudo a delle accuse che in effetti sono tutte da verificare e valutare.
Secondo i giudici «l’intento del Foti (era) quello di svolgere una approfondita psicoterapia improntata al metodo da lui adottato di indurre la paziente a rivelare i pensieri e i ricordi più nascosti e ciò per una commistione di motivi ideologici, professionali e soprattutto economici», alludendo ai contratti già firmati o in procinto di firmare con gli enti pubblici della zona da parte di Foti e dei suoi collaboratori che da Moncalieri avevano trovato nuovi territori d’azione dopo che gli orizzonti di sviluppo si erano a dire la verità piuttosto chiusi proprio per gli insuccessi giudiziari precedenti e le polemiche che ne erano seguite.
Il Tribunale ritiene piuttosto che quella dello psicologo piemontese sia una sorta di cerchia di fedeli del culto, intollerante a ogni diversa e laica visione, governata da regole proprie, incline a proseguire «modalità già attuate in passato e rivelatisi fortemente suggestive, anche a rischio di commettere ulteriori abusi, convogliando presso di se i minori, manipolando assistenti sociali e funzionari pubblici». Accuse da dimostrare, ovviamente, ma intanto è bene capire di cosa Foti e i suoi presunti complici debbono rispondere: invero, di persecuzione ideologico-culturale non c’è traccia.
Dunque, perché parlare allora di un caso Foti scomodando addirittura Enzo Tortora ed Aldo Braibanti, come ha fatto il presidente del Partito radicale Maurizio Turco durante un convegno-conferenza stampa (con pochissime domande della stampa ammesse) tenutosi presso la storica sede radicale qualche giorno fa?
Perché parlare addirittura di «un processo alla scienza» con totale sprezzo oltre che di Galileo Galilei anche del senso delle proporzioni e del ridicolo?
Come è possibile sentire nelle stanze dove dialogavano Marco Pannella e Massimo Bordin sul diritto di difesa sentire oggi un esperto di psichiatria discettare di diritto processuale e sostenere con la massima serietà che «gli imputati hanno potere, soldi ed avvocati» manco fosse la difesa una colpa, senza provare un moto di ripulsa?
A me pare che una tale difesa sia del tutto politica ed ideologica, e non tecnica come vorrebbero far credere i Radicali. Il che potrebbe pure starci come avvenne nelle battaglie anti proibizioniste, contro le discriminazioni verso gli omosessuali, per l’aborto e l’autodeterminazione sul fine vita, ma qui siamo ben lontani, perché il terreno d’azione rischia di spostarsi sulla difesa di prassi inquisitorie già rigettate dalla maggioranza della comunità scientifica e della giurisprudenza che si riconosce in altre linee guida come la Carta di Noto che, non a caso, Foti e i suoi ritengono roba da pedofili.
La scienza, o meglio, la pseudoscienza, non è materia neutra di fronte a cui il garantista deve sottrarsi per lasciare la parola agli specialisti o presunti tali, ma come il diritto è incandescente oggetto di dibattito politico sui cui la propria storia e tradizione non possono essere messe da parte, o peggio ancora manipolate, sia pure per l’apprezzabile scopo di una difesa processuale di un presunto innocente. Il garantismo, cari amici radicali, è altro.