Pazienti sul web Paolo Spada, il medico diventato una star di Facebook spiegando i numeri della pandemia

Lo specialista in chirurgia vascolare e fondatore di EVARplanning dimostra quanto sia importante aiutare a capire cosa ci dicono i dati attraverso i social. È un approccio molto apprezzato e che soprattutto consente di andare al di là degli opposti fanatismi di chi nega il virus e di chi dipinge scenari catastrofici, quando mai controproducenti in questa seconda ondata

Il Dott. Paolo Spada presso il Ministero della Salute, Roma. Foto presa dal profilo Facebook ufficiale del Dott. Paolo Spada

Qualche utente inizia perfino a definirsi fan di Paolo Spada. Lui, il medico dei dati, che da mesi sulla propria pagina Facebook, e poi su quella di Pillole di Ottimismo, fondata da Guido Silvestri e ormai seguitissima, spiega i numeri della pandemia. Spiegare è il fulcro di tutto: mentre Istituzioni, media, diversi medici e virologi buttano spesso in faccia al cittadino i dati, utilizzati come armi di allarme di massa, Spada spiega. Sarebbe fuorviante quindi parlare dei suoi utenti come fan, perché quello che Spada e Pillole di Ottimismo vogliono è proprio andare al di là dei fanatismo di una parte (“non c’è Covid & no mask”) e dell’altra (“chiudiamo tutto o moriremo tutti”).

Paolo Spada è chirurgo vascolare all’Humanitas Research Hospital di Milano, e negli anni ha sviluppato interesse per l’approccio multidisciplinare, con particolare attenzione al rapporto umano con il paziente e i suoi famigliari. È fondatore di EVARplanning, sistema computerizzato per la configurazione e rendering dell’impianto endoprotesico dell’aorta, oggi utilizzato da oltre 1200 chirurghi di tutto il mondo. Approccio multidisciplinare, rapporto umano e passione per i numeri dunque: «ho lavorato per molti anni sugli algoritmi applicati alla sanità» spiega.

«Quando è scoppiata la pandemia, il mio interesse si è acceso sia da un punto di vista medico sia di analisi dei dati, uno strumento fondamentale per le epidemie, di conoscenza ma anche di azione. È anche lo strumento per comunicare alle persone nel modo corretto: siccome il loro comportamento è importante, comunicare in un modo o nell’altro determina un atteggiamento o il suo opposto. Purtroppo in questa epidemia si tende a drammatizzante tutto, sempre, nelle stessa misura a luglio come a marzo o adesso, ma così si perde di efficacia, saturando lettore e telespettatore».

Mi passi il paragone, ma si ha la sensazione che la lettura del dato dell’epidemia sia stata modulata su quella degli ascolti di Sanremo: o è top o è flop, in maniera assoluta, serata per serata…

«Top e flop: sì, è così. Ancora oggi la lettura del dato è sempre fatta rispetto al giorno prima, e quindi i casi o salgono o scendono a seconda di 100 o 200 casi in più o in meno. Quello che percepisce il cittadino medio è un continuo su e giù, un parlare attorno all’argomento in tono preoccupato. Ma se si vuole capire dove va l’epidemia bisogna analizzare il dato su più giorni, per vedere il trend, e su livello locale (regione e possibilmente provincia) per vedere dove sono le circolazioni virali maggiori e il sistema di sorveglianza è meno efficiente. E questo i numeri ce lo dicono: basta fare il rapporto tra i positivi e le persone testate (e non solo i tamponi, perché dentro questo numero ci sono molti tamponi di controllo).

Quando questo numero supera il 2%, il servizio territoriale non riesce a limitare del tutto l’espansione dei focolai. Ci sono regioni in questo momento (ad esempio Campania e Liguria) che arrivano ad avere quasi 10 positivi ogni 100 persone testate. Se questo poi è unito a un basso numero di tamponi per 100.000 abitanti, c’è una difficoltà organizzativa. Questo dato sui 100.000 abitanti va fatto un po’ su tutti gli indicatori. Continuiamo a sentire tutti i giorni che la Lombardia, regione popolosa, è tra le più colpite. Era giusto nei primi mesi, da lì è partito tutto, ma in questo momento ha un numero di positivi ogni 100.000 abitanti tutto sommato tra i più bassi, un numero di tamponi sufficiente e un rapporto tra positivi e persone testate tra i migliori».

Il problema è anche la qualità del dato, e cioè cosa significa positività al tampone…

Il tampone fa un’analisi molto raffinata per individuare i segni di passaggio del virus, ma non individua se è vivo, attivo, in grado di replicarsi e quindi di contagiare. Sappiamo ormai che la contagiosità inizia 48 ore prima della comparsa dei sintomi, è massima nei primissimi giorni di malattia, poi decresce rapidamente e si esaurisce entro dieci giorni. Questa è la regola (come tale ha delle eccezioni, per esempio alcuni pazienti gravi, immunodepressi) che l’OMS adotta per il rilascio del paziente. Ma già da tempo Gran Bretagna, Germania, Francia, USA e molti altri paesi non utilizzano per dichiarare la guarigione un altro tampone dopo il primo, perché si può rimanere positivi al test molto a lungo, anche quando la malattia viene superata.

Noi invece continuiamo ad attendere che questa positività venga meno, e spesso avviene dopo mesi. Adottare in Italia i criteri dell’OMS ci consentirebbe di liberare non solo risorse (tamponi e personale sanitario), ma i cittadini. Abbiamo 58mila persone, numero che sale tutti i giorni, in isolamento domiciliare, con disagio, non possono lavorare, ma sappiamo ormai che dopo 10 giorni sono guarite e non sono contagiose. Non si dice quasi mai questo: essere positivi al SARS-CoV-2 non significa essere malati di COVID-19. Noi tendiamo a sovrapporre positività al tampone e malattia, ma scientificamente non ha più ragione d’essere. Chi sviluppa la malattia soffre per gli effetti secondari dell’infezione, ma la contagiosità non persiste, salvo eccezioni già citate, di ambito ospedaliero. Le persone temono ormai di subire un isolamento senza fine, e tendono a non dichiarare i sintomi. Un fenomeno che noi non vediamo, ma tanto diffuso, quanto poco lo è invece l’App Immuni, non scaricata anche per paura di finire in un limbo».

Tornando a Sanremo, ogni anno si prendono gli ascolti e li si paragonano a quelli dell’anno prima e di decenni prima, quando il contesto mediale era diversissimo. Anche adesso, continuiamo a paragonare i numeri di oggi dell’epidemia a quelli della primavera…

La situazione è diversa. Ad aprile e marzo avevamo un campione di tamponati basato solo sui pazienti sintomatici con un quadro severo: era la punta della piramide, il resto del sommerso aveva sintomi lievi o era asintomatico. Adesso questa piramide, non certo emersa del tutto, è largamente nelle nostre mani. Non abbiamo di sicuro testato il 100% del campione, ma così a spanne si può immaginare che ne abbiamo altre 3000 che sfuggono, non certo 30.000.

Il tema di questi giorni sono le mascherine all’aperto: la gestione della pandemia pare ricadere di nuovo molto sul cittadino. Passi avanti a livello di gestione sanitaria ne abbiamo fatti, eppure alcuni territori già soffrono, cosa non funziona?

Abbiamo la sensazione che nonostante lo stato di emergenza non siano stati presi molti provvedimenti per il potenziamento del personale, che non può moltiplicare il proprio sforzo all’infinito. L’elasticità ha un limite invalicabile, e i tempi si allungano, ad esempio quello di lavorazione dei tamponi. Vedere tutto questo a ottobre, quando sono mesi che sappiamo di questa seconda ondata, fa dispiacere. Una cosa è lo sforzo delle persone, presente fin dal primo giorno, una cosa è lo sforzo dell’Istituzione. Bisogna fare di più in termini di potenziamento e organizzazione del potenziale umano. I maestri in questo sono da sempre i tedeschi, e stanno dimostrando con i numeri ancora una volta che l’organizzazione paga. Certo, hanno anche più disponibilità economica, ma hanno capito di dover reclutare più persone per testare e tracciare. Bisogna investire un po’ di più per tenere a bada i focolai.

Questa pandemia – si dice – ha cambiato il lavoro del medico. Come è cambiato per lei, avendo ora anche “pazienti” virtuali che a lei si affidano, ogni sera, via Facebook?

Per me il medico è anche un divulgatore e un comunicatore: se fallisce nel contatto personale e umano con i suoi pazienti e interlocutori perde gran parte della propria missione. Io ne faccio una questione professionale. Che questa pandemia abbia cambiato qualcosa in meglio non lo so, chi non aveva prima questo aspetto continua a non averlo. In questo momento c’è bisogno di chiarezza e di neutralità nell’esposizione della situazione, senza fare dell’ottimismo facile ma cercando di dare un supporto psicologico a quelle persone che soffrono di questa narrazione un po’ drammatizzante e confusa, spesso fatta nella convinzione di far adottare alle persone comportamenti più responsabili. Io ho qualche dubbio che funzioni. Quello che di sicuro produce è ansia. Ci vuole qualcuno che faccia un contrappeso, che riporti la narrazione in uno suo equilibrio scientifico: non è “la fine del mondo”, è una situazione governabile, ma allo stesso tempo non è “andrà tutto bene”, è governabile con dei correttivi e con uno spirito combattivo. Bisogna impegnarsi, con ottimismo, per fronteggiarla a testa alta.