La Difesa prima di tutto. Un autentico dogma in Grecia, da sempre tra i primi Paesi della Nato per spese militari e oggi ancor più importante dopo le tensioni con la vicina Turchia scoppiate a settembre 2020. Il casus belli è legato alle Zone economiche esclusive (Zee) nel Mar dell’Egeo, sulle quali Atene e Ankara sono arrivate anche a contrapporre le rispettive Marine militari. Per questa ragione il bilancio 2021 greco riserverà al settore militare un budget di 5,5 miliardi di euro, più del doppio rispetto a quello del 2020. Un aumento che ha scatenato non poche polemiche nel Vouli, il Parlamento monocamerale greco, che ha approvato la manovra a metà dicembre.
L’opposizione, guidata dall’ex primo ministro Alexis Tsipras, si è astenuta, denunciando i tagli alla sanità ed evidenziando «l’incoerenza di un simile programma che segnerà nuovamente il fallimento economico del Paese, come nel 2010». In un contesto segnato da un rapporto debito/PIL al 209% e con una flebile ripresa del PIL al +4,8%, la crescita del 57% della spesa militare voluta dal governo conservatore di Kyriakos Mitsotakis sembra quasi fuori dal tempo, ma le ragioni non mancano.
«Il governo di Atene, in questo momento, cerca di rafforzare le sue pretese investendo nell’esercito, in modo tale da poter competere con la Turchia», dichiara Alessandro Marrone, ricercatore dello IAI, Istituto Affari Internazionali, e responsabile del Programma Difesa. La Grecia sembra voglia soprattutto investire nel settore marittimo e aeronautico. L’intenzione è quella di acquistare 4 fregate e poi elicotteri, siluri, missili ma soprattutto 18 caccia Dassault Rafale (6 nuovi e 12 usati), pagando quest’ultimi 2,3 miliardi di euro alle industrie francesi.
Un piano complessivo che include anche il miglioramento degli F16, in collaborazione con la statunitense Lockheed, e l’assunzione di 15 mila nuovi soldati, per un costo complessivo che potrebbe arrivare fino a 11,5 miliardi di euro, spalmati su diversi anni. «Dietro questa spesa ci sono evidenti motivi: la Grecia vuole continuare a presidiare il Mediterraneo centrale ed orientale, acquisire informazioni sui movimenti della Turchia ma vuole anche cercare di “spaventare” Ankara. Di fronte al secondo esercito più importante della Nato, il governo di Atene sta tentando di giocare una doppia partita dal punto di vista sia militare che diplomatico e per questo ha deciso di investire su prodotti provenienti dalla Francia, che rimane una forte sostenitrice delle posizioni greche».
Infatti, il governo di Emmanuel Macron è sempre stato uno dei primi oppositori al regime del presidente Recep Tayyip Erdogan e non è un caso che sia stato anche il primo a volere sanzioni più aspre contro la Turchia, andando contro le posizioni più moderate assunte da Germania e Italia. «Inoltre, la spesa serve anche per ridare lustro a un esercito che è sempre rimasto a presidiare i confini nazionali. La Grecia non ha mai preso parte a operazioni Nato perché ha sempre preferito concentrarsi sulla protezione del proprio territorio da parte di possibili invasori. È una spesa utile per un settore fin qui rimasto trascurato».
In questa partita non si può non menzionare il principale garante della stabilità regionale: gli Stati Uniti. «Storicamente Washington ha sempre cercato di mantenere la pace nella regione sin dall’ingresso dei due Paesi nella Nato, nel 1952. Oggi però le cose sono cambiate. La presidenza Trump ha accelerato un processo di allontanamento degli Stati Uniti che preferiscono non intervenire in questo momento, in quanto consapevoli del valore del mar Egeo e del rischio che una escalation delle tensioni possa incidere sulla stabilità balcanica e mediorientale».
In questo senso vanno letti i tentativi degli Americani di sostenere la mediazione portata avanti sia dai Tedeschi che dalla Nato, con il segretario generale Jens Stoltenberg impegnato in prima persona per trovare una soluzione che possa andar bene a entrambi gli Stati. Sebbene cerchi di mantenersi neutrale, la voce del governo di Washington resta però in alcuni casi forte e chiara. «Gli Stati Uniti sono stati i primi a volere l’espulsione di Ankara dal programma di acquisizione degli F35 perché il governo di Erdogan aveva acquistato i sistemi missilistici russi S-400. Un’incompatibilità che avrebbe messo a rischio la sicurezza della stessa Nato».
Su una cosa però c’è di che stare certi. «Gli Stati Uniti sono i primi a non volere i Turchi fuori dalla Nato. Sarebbe pericoloso per la sicurezza della regione e per i possibili legami che potrebbero stringere con Paesi come Russia, Iran o Cina. Per questo c’è da aspettarsi che la nuova presidenza Biden cerchi la via del dialogo con Erdogan per pacificare la regione e mantenere lo status quo, anche se non si prospetta un’impresa facile».
Il conflitto in Libia e i contrasti con i Paesi europei hanno spinto Erdogan a minacciare la chiusura di basi come quella di Incirlik, gestita congiuntamente dalla United States Air Force e dalla aviazione turca, la Türk Hava Kuvvetleri, dove sono presenti anche bombe atomiche tattiche. Forse anche per questo gli Stati Uniti hanno deciso di investire in Grecia, spendendo 12 milioni di euro per il rafforzamento della base di Larissa e 6 milioni per quella di Souda, sull’isola di Creta.
«Aldilà delle minacce di Erdogan, gli Stati Uniti cercano in questo momento di diversificare, tenendo pronto un piano B nel caso in cui il rapporto con il governo di Ankara dovesse peggiorare. Ma non dimentichiamo che la Turchia rimane strategica per la Nato: qui ci sono sistemi di difesa dai lanci missilistici che rimangono essenziali per la difesa del mondo occidentale. È impensabile immaginarli in questo momento spostati altrove».
L’azione tra Grecia e Turchia non si concentra solo sull’aspetto militare. «Anche a livello diplomatico i due Paesi stanno agendo in maniera contrapposta. Da un lato la Turchia ha trovato un’intesa con il governo libico di Al Serraj per il riconoscimento reciproco delle Zee, dall’altro la Grecia ha stretto accordi con l’Egitto ma anche con l’Albania, l’Italia e Cipro». Il governo di Atene però si è spinto anche oltre, visto che ha stretto accordi militari con Paesi come gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, a cui Atene ha deciso di inviare missili Patriot.
«Questo gioco di alleanze rischia di essere molto pericoloso. Per questo l’Unione dovrebbe agire: è essenziale che lavori a fondo sul Mediterraneo allargato, un’area che va dal Sahel fino al Corno d’Africa e al Caucaso, perché sono aree vicine ai confini cruciali per la stabilità della stessa Unione. Serve un intervento coordinato e senza spinte centrifughe da parte degli Stati membri: il quadro è ormai cambiato rispetto a 10 anni fa e può ancora cambiare, anche in peggio». Sicuramente la Nato può fare di più, visto che «ha già lavorato bene sul confine ucraino, dove ormai da 6 anni non si registrano più problemi. Non deve dimenticare però il fronte meridionale, che non tocca solo Grecia e Turchia ma tutti i Paesi».
Il 2021 sarà per questo un anno importante. Cosa aspettarsi? «Le tensioni sul confine possono diminuire se tutti, dall’Unione Europea fino alla Nato, sapranno fare pressione sulle parti in causa per un atteggiamento più cauto. È importante lanciare il messaggio che il Mediterraneo non è un far west, dove ogni Stato può giocare in modo autonomo senza vincoli di alleanze».