Sono il ministro della Lettera rubata di Poe. Sono il ministro e sono anche la sua vittima, e nel darvi queste informazioni vi sto rendendo inutile la lettura delle righe che seguono, avendovene guastata la suspense. Non fosse che, se somigliate anche solo un pochino a me, tra cinque righe già non vi ricorderete più dell’informazione che vi avevo appena dato.
Che poi è il principio di Proust, che quando cita la Lettera rubata lo fa per giustificare l’io narrante che non riconosce un cameriere perché s’è fatto crescere i baffi: figuriamoci, non lo riconosce perché la soglia d’attenzione con cui guarda i camerieri è persino più bassa di quella con cui io tratto le mie più preziose protesi, più bassa di quella con cui voi leggete me.
Ma basta con la letteratura, parliamo piuttosto della mia settimana natalizia.
Quella in cui sono stata senza telefono.
Tra le cose che ti accadono quando stai una settimana senza telefono, e quella è la settimana di Natale: la gente più imprevista, alla mail con cui annunci che sei senza telefono e se servi per cose di lavoro di scriverti lì, risponde «ma quindi non posso farti gli auguri a voce?» (proprio quest’anno che ci tenevo, invece di mandare il solito WhatsApp uguale a tutta la rubrica telefonica); due terzi delle mail che ricevi hanno per oggetto «L’hai ritrovato?»; i pessimisti più cosmici ti raccontano che loro se lo sono fatto rubare così e cosà, e sicuramente è successo uguale anche a te, e questi racconti sono del tutto impermeabili al tuo ripetere che l’hai perso restando in casa, e può essere che la tua sedicesima personalità te l’abbia rubato, in effetti, ma non è tra le chance più accreditate.
Le prime 48 ore sono di purissimo sollievo. L’ho cercato, non lo trovo, si vede che non ero destinata a comunicare col mondo, vivrò una vita nuova senza squilli e notifiche, finalmente sarò Unabomber, isolata da tutti, devo solo riuscire ad affittare una capanna nel bosco senza che l’agente immobiliare possa richiamarmi.
Poi, il terzo giorno, vai sul sito di Trenitalia a comprare un biglietto, e quando finalmente superi le correnti gravitazionali, lo spazio, la luce, il veterinario cui hanno fatto progettare quel sito invece che a un ingegnere informatico, è allora che, all’inserimento del numero di carta di credito, la schermata ti dice che ti hanno mandato un codice di conferma via sms. No, come via sms. Non è prevista un’opzione per gente che pur di ritrovare il telefono ha persino messo a posto il tavolo della cucina ma niente?
È in quel momento che ti rendi conto che altro che dittatura sanitaria: abitiamo in una dittatura telefonica, senza quel coso che squilla non si può vivere.
A questo punto molti dei miei piccoli lettori, gente che s’è fatta truffare dal marketing e prende a ditate un vetro, starà già prendendo a ditate unte di cappone lo schermo per notificarmi che esiste la funzione «trova iPhone».
Siete bambini grandi, sapete che i regali ve li portano i genitori e che se vi cade un dente dovete chiamare il dentista e non la fatina, siete pronti per sapere anche questo: io ho un Blackberry.
Sono quella che tiene i telefoni per dieci anni l’uno, un tempo nel corso del quale voi dovete far cambiare il vetro dell’iPhone una ventina di volte, perché il Blackberry non si rompe mai, per quante volte tu lo faccia cadere (per forza poi falliscono).
Sono quella cui la cassiera ventenne di Eataly, vedendolo appoggiato sulla cassa, dice «Uh, ma quello è un telefono? Carino, coi…», e poi le manca la parola, perché è d’una generazione sfortunata che non ha mai visto dei tasti, che non sa che io nella fila alla cassa ho fatto in tempo a scrivere un articolo, che non sa che i messaggi vocali si sono diffusi perché voialtri senza tastiera a scrivere quattro righe di WhatsApp ci mettete dieci minuti (dodici se volete scriverle senza refusi).
Sono una dei felici pochi, io, anche nelle cento ore in cui scavo nella polvere convinta che il Blackberry sia finito in un anfratto tra una ricevuta di taxi del 2010 che forse potrei buttare e un sacchetto d’aglio mai aperto dal quale, se lo aprissi ora, uscirebbe probabilmente un vampiro.
Sono una dei felici pochi, e non mi pento della mia scelta telefonica neanche quando non posso fargli fare bip bip e farlo riemergere dal disordine.
Verso il quarto giorno smetto di pensare che il telefono si paleserà come la pistola in Todo modo di Sciascia: senza che io mai sappia da dove salti fuori. Verso il quarto giorno non ricordo più niente dell’ultima mattina in cui l’ho visto e inizio a delirare: oddio, era il giorno della raccolta della carta? Sarà scivolato in qualche scatolone che ho portato giù e ora è in un impianto di riciclaggio tutto solo e coi miei numeri di telefono che mai più avrò la pazienza di riprocurarmi?
A mezzanotte mi arrendo, sono cinque ore che butto roba nell’ingresso, che trasporto casse di bottiglie in cucina sfasciandomi la schiena perché ho deciso che il telefono per forza nell’ingresso debba essere, e che spunterà solo quando la stanza sarà sgombra e minimalista e Marie Kondo sarà fiera di me.
È mezzanotte, quindi ormai è Natale, ho diritto a un Christmas miracle, a una zucca che si trasformi in carrozza, a un cameriere che si levi i baffi finti e si faccia riconoscere.
Mi ricordo che, tra le mail ricevute, ce n’era una che diceva «T’ho chiamato, dà libero». Ennesima superiorità del Blackberry: disperso da giorni e non ancora scarico, che ne sapete voi con quegli aggeggi che si scaricano in un amen.
Spengo tutte le luci. È silenziato e senza vibrazione, sì, ma s’illuminerà pure il display. Dallo Skype installato sul computer chiamo il mio numero. E la lettera rubata è lì, poggiata sulla cassapanca dell’ingresso attorno alla quale ho girato tutta sera, col suo bravo display lampeggiante nel buio, con la sua batteria con più vite di Lazzaro, con tutti i tasti vintage. Nascosta in bell’evidenza, ma per distrazione della vittima invece che per strategia del ministro. Siamo di nuovo una coppia, io e te, lettera rubata con tastiera. Appena in tempo per farmi ricevere i messaggi ciclostilati di quelli che augurano un sereno Natale a tutta la rubrica.