Sapevamo tutti che sarebbe finita così. Molti hanno voluto illudersi e l’ubriacatura è stata così forte da tollerare un governo politico con la Lega di Matteo Salvini, ante Draghi, e con il Partito democratico, dopo, in cui i soggetti coinvolti hanno propagandato la propria merce, talvolta elidendosi a vicenda, mentre il Paese, impaurito e fragile, sperava nella pioggia di soldi da Bruxelles che si pensava fosse un maxi-ristoro senza condizioni. Un immenso bancomat il cui Pin è ora in mani sicure.
In un paese in cui hanno nuotato balene e sardine, l’anguilla a cinquestelle si avvia ora al proprio tramonto tra dissensi interni, leadership periclitanti e padri fondatori, quelli sì «un po’ stanchi» ancora esibiti ma sempre meno ascoltati e accetta ben volentieri l’incomprensibile abbraccio intergruppo che gli viene offerto da Nicola Zingaretti. Un’ ipotesi probabilmente suggerita dal solito Bettini che, nell’interesse di quello che fu un partito a vocazione maggioritaria e che resta la più importante infrastruttura del centro sinistra, pare sia già in via di dissolvimento, aprendo però la strada a un ormai indifferibile Congresso.
Finito a piè di pagina della storia della politica della Repubblica, soltanto Umberto Eco sarebbe stato capace di individuare i resti del Movimento Cinque Stelle per scrivere anche di esso una Fenomenologia che gli italiani di domani avrebbero letto con la medesima curiosità che si ha per un manoscritto andato perduto e casualmente ritrovato. Ma il maestro non c’è più. È andato via in silenzio nel 2016, lasciando un Paese di cui aveva previsto tutto o quasi, purchè si andasse a guardare dietro e dentro le trame avvincenti dei suoi romanzi/saggi dai personaggi indimenticabili.
Quante cose avremmo potuto e dovuto imparare dalla razionalità di Guglielmo da Baskerville e dall’ingenuità di Adso da Melk, dall’invasato inquisitore Bernardo Gui e dal pernicioso Jorge da Burgos, dall’ipocrisia del grasso abate benedettino Abbone da Fossanova e dal delirio mistico di Ubertino da Casale, e poi dall’emotività di Baudolino, dal doppio ingresso della casa editrice Manunzio per talenti e Garamond a pagamento per i gonzi che vi cadevano. Dal disorientamento del cavalier Roberto de La Grive de “L’isola del giorno prima” che non riuscirà mai a raggiungere il tempo futuro, dalla perdita di memoria del protagonista, Giambattista Yambo Bodoni de “La misteriosa fiamma della regina Luana” e infine dalle mille mistificazioni di Simone Simonini, il protagonista polimorfo de “Il Cimitero di Praga”. Mi pare che possa bastare per risvegliare le analogie più fantasiose dei lettori.
Chissà come se la starà ridendo Umberto da Bologna nella biblioteca angelica predisposta per lui laddove si trova, lasciando a minime penne di scrivere su quanto sta accadendo nel Movimento che fu di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio, non tanto per comprenderne le dinamiche, poiché sarebbe stato arduo anche per lui, quanto per evitare che domani gli italiani possano cadere di nuovo nella trappola dei movimenti senza futuro, con o senza conserva sott’olio e relative scatolette e che un nuovo pianto di stelle inondi l’atomo di terra in cui viviamo.
Mai come oggi la politica ha bisogno di partiti veri, pochi ma solidi e confidenti nell’alternanza democratica, fondati su ciò in cui i militanti credono, purchè all’interno di un perimetro costituzionale di cui ogni giorno di più apprezziamo la lungimiranza e la consistenza. Partiti che facciano crescere i propri esponenti secondo percorsi di qualità, di competenza, di realismo, di respiro internazionale, come ho auspicato possano fare trasversalmente con l’aiuto prezioso di scuole innovative quale quella promossa dalla rivista Limes, diretta da Lucio Caracciolo.
Partiti che sappiano dare spazio al legittimo dibattito interno per poi pervenire a sintesi ragionate e approvate non per escludere qualcuno, ma per arricchire maggioranza e minoranza e che nel momento del bisogno siano affidabili non in nome di questo o di quel leader transeunte quanto per l’idea di società e di mondo su cui chiedono il consenso popolare.
Soggettualità politiche autorevoli e mature che prendano esempio da grandi figure del passato divenute tali proprio perché non si sono mai avvitate alla propria poltrona nel partito o nelle istituzioni. E se l’esercizio di memoria risultasse difficile, prendano esempio da Mario Draghi di cui molti speriamo abbiano finalmente compreso che oltre l’immagine del banchiere austero e insensibile, comoda da agitare fino a ieri per i suoi detrattori, c’è un uomo di grande fede, d’intensa umanità e di grande capacità di visione. Un grande italiano come Carlo Azeglio Ciampi, Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Marco Pannella e pochi altri, alcuni dei quali ancora viventi e venerandi, ma a cui, come si sa, proprio per questo non è di buon gusto erigere monumenti o intitolare strade.
E sono proprio i grandi italiani e le grandi italiane, quali Liliana Segre, Rita Levi Montalcini, Nilde Jotti, Tina Anselmi e tante altre, che fanno crescere la società, ispirandone i comportamenti e immunizzandola da future infezioni, se solo si avesse il coraggio di rileggerne la vita e di considerane le opere a quante tra le più giovani che stanno crescendo in tale direzione, apprendendone le grandi lezioni di sofferenza, competenza e serietà, nessuno mai potrà opporre arcaici pregiudizi o anacronistiche quote che ne umiliano l’intelligenza e ne inibiscono il contributo che il Paese si aspetta da loro.
Quale spreco rischiamo oggi di contemplare in soggetti politici di nuovo conio che pure tante giovani donne hanno inserito tra le proprie file, trascurando però di dare loro il nutrimento della fiducia e non dell’odio, dello studio e non dell’invettiva, del dialogo e non del disprezzo dell’avversario, specie se additato come aborrito competente!
Tuttavia, potrebbe non essere troppo tardi a patto che la transizione da tutti auspicata non sia solo green ma anche e soprattutto mindful, e i partiti comprendano che nella vita, come in politica, che ne è la massima espressione di servizio, cambiare idea è molto più nobile e utile piuttosto che abbracciare, come i torturati medievali o nazisti che legavano un vivo a un cadavere, un passato che non può più esprimere nulla e che si trasforma piuttosto in ossessione ideologica, pur non avendo alcuna ideologia.
A tutti, e ripeto a tutti, è data ora la possibilità nei mesi che verranno di rivedere posizioni desuete, di purgare le proprie affermazioni ardite ed antistoriche, di mettere nel cassetto dei ricordi slogan che hanno fatto il proprio tempo per tutti e molto danno agli italiani. E non risparmio neanche una certa porzione di intellettuali che, pur nel massimo rispetto delle diverse opinioni, hanno però alimentato l’odio per la casta, sapendo che sarebbero stati equivocati e mettendo in conto il rischio di consegnare il Paese alla superficialità delle semplificazioni, non più permesse ad alcuno nelle società complesse che esigono invece, a ogni livello, studio, attesa, maturazione e dialogo.
In più occasioni, memore di antichi pellegrinaggi, ho disturbato Georg Wilhelm Friedrich Hegel dal sonno eterno in cui riposa a Berlino nel Dorotheenstädtischer Friedhof, ricordandone l’antico enunciato: «Ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale» che, in buona sostanza, vuol dire che gli accadimenti della Storia sono sempre teleologici, cioè perseguono, pur nel travaglio dialettico tra tesi e antitesi, sintesi nuove e più avanzate da cui origina il processo di evoluzione individuale e sociale, di consapevolezza politica, di ardimento speculativo.
La pandemia, come peraltro avvenuto in analoghe circostanze in passato, sta rappresentando una costosissima occasione per rivedere paradigmi, ridefinire identità, discernere tra priorità. Accadde dopo le guerre di religione che furono superate dalla Rivoluzione Francese con la concezione laica dello Stato; si verificò dopo il travaglio del ventennio dei fascismi europei che partorirono, loro malgrado, le democrazie; ne abbiamo fatto esperienza dopo l’orrore nucleare di Hiroshima e Nagasaki che, pur tra mille esitazioni, condurranno prima o poi al disarmo nucleare totale, un percorso avviato da Ronald Reagan e Michail Sergeevič Gorbačëv nel dicembre del 1987 e poi interrotto dall’involuzione della Russia di Vladimir Putin e dall’esplosione destabilizzante del fondamentalismo islamico, culminato con l’inizio del Terzo millennio nelle macerie delle Twin Towers e in ciò che ne è seguito di ambiguo e drammatico negli Stati Uniti dei Bush e, da ultimo, di Donald Trump.
Né purtroppo, al riguardo, la parentesi di Barack Obama è stata sufficiente per non tornare indietro. Confidiamo ora in Joe Biden, un po’ meno, nella Cina di Xi Jinping e nell’Iran di Hassan Rouani, anche se la prima sembra aver ormai individuato come più conducente la più melliflua Via della Seta al cui abbraccio letale l’Italia giallo-verde di non molti mesi fa sembrava già pronta a concedersi languidamente. Pericoli a cui il discorso di Mario Draghi al Parlamento ha fatto riferimento non tanto felpato e che rafforzano l’identità atlantica ed europea in funzione di garanzia del futuro del mondo. Una strada che ha salvato l’Italia in passato e da cui non si tornerà indietro. Whatever it takes!
Per quanto indotta dalle circostanze, la nuova maggioranza parlamentare sa bene di non poter commettere errori o passi falsi che a Mario Draghi farebbero, ove possibile, il solletico in quanto, a differenza del suo predecessore, non interessato a ulteriori successi personali – e lo vedremo quando, come credo, non sarà così smanioso di considerare il Colle per gli anni della vecchiaia quanto piuttosto concedersi la meritata serenità nel buen retiro di Città della Pieve – ma all’Unione Europea darebbero giusto motivo per prefigurare la strada che a suo tempo fu imposta alla Grecia che aveva falsificato per anni i propri conti pubblici.
Certo, sarebbe il cigno nero, la cui speranza ancora cova in alcuni oscuri meandri della Destra, della Lega e del Movimento Cinque Stelle, ma segnerebbe anche la fine dell’Italia come nazione europea e avvierebbe il lento scivolamento su un drammatico piano inclinato di almeno metà di essa verso il nord Africa, magari con mezzi più confortevoli dei barconi che percorrono ancora ingenuamente la rotta inversa.
Va pertanto superata la naturale ironia che susciterebbero inedite dichiarazioni come quelle di tal Antonio Maria Rinaldi, economista allievo di Paolo Savona e parlamentare europeo della Lega (Gruppo parlamentare Identità e democrazia) che ha definito «puramente accademica» la pluriennale opposizione all’euro, come dichiarato telefonicamente ad Annalisa Chirico de il Foglio, il 9 febbraio scorso. I profumi romani sono arrivati rapidamente a Strasburgo. Fortunatamente di Rinaldi ricordiamo tutti le performances alla vaccinara, nei talk show dei mesi antecedenti le elezioni europee del 2019. Dopo aver conquistato il seggio con quasi cinquantamila preferenze, era scomparso dai radar.
Va tenuta memoria per il futuro del siparietto dei due Dioscuri dinanzi all’edificio del Parlamento Europeo con la solenne promessa di abolire una delle due sedi dell’unica istituzione europea espressa dai cittadini. Oggi percorrono con i rispettivi seguaci strade diverse: uno verso Damasco, l’altro in cammino verso Montecitorio, alle prossime elezioni, brandendo ancora l’antico e ormai arrugginito apriscatole. Le origini di entrambi appartengono a un’era che ora appare geologica.
Nel 1932 lo scrittore tedesco Hans Fallada, pseudonimo di Rudolf Wilhelm Friedrich Ditzen, pubblicò nella Germania di Weimar il suo secondo romanzo, intitolato “E adesso, pover’uomo ?”. Ne fu tratta una riduzione televisiva per la regia di Eros Macchi e attori teatrali di grande successo quali Ferruccio De Ceresa nei panni del protagonista, Renzo Palmer, Paolo Poli, Luigi Vannucchi e Laura Betti, al tempo dei grandi sceneggiati della RAI.
Vi si narra la drammatica vicenda spiegata in modo efficace dalla presentazione della casa editrice Sellerio di Palermo, che lo rieditò nel 2008, con due scritti di Beniamino Placido e di Ralf Dahrendorf: “Le vicende di un giovane commesso, di sua moglie, del loro bambino. Una famiglia come tante della piccola borghesia tedesca alle prese con le crescenti difficoltà economiche e con lo spettro della disoccupazione. Sullo sfondo una Germania già presa nel vortice che l’avrebbe piombata nel Nazismo. «È da persone come queste, come i coniugi Pinneberg – modesti pazienti onesti – che sono venuti fuori i nazisti?», induce a chiedersi Beniamino Placido nella Germania di Weimar già presa nel vortice che l’avrebbe piombata nel Nazismo. Ottenne in pochi mesi vette di vendita altissime, tradotto subito in dieci paesi: tra cui l’Italia dove giunse in una versione edulcorata nel linguaggio, privata di scene pruriginose, alquanto rieducata politicamente. Sul lettore di oggi che sa come andò a finire, il libro fa più o meno l’effetto di un ultimo urlo lanciato ai posteri appena prima che sia caduta la notte.
Hans Fallada, l’autore, apparteneva alla tendenza artistica della Nuova Oggettività, un neorealismo che si prefiggeva di corrispondere al desiderio di vedere rappresentata l’esistenza concreta. E infatti messa in scena è la crisi del piccolo borghese tedesco, stretto in un disagio angosciosamente privo di percepibili vie di uscita: quasi un “come si diventa nazisti” ma con l’intuizione felice di raccontarlo entro la cornice di un romanzo sentimentale.
La storia è l’amore di Johannes Pinneberg e di Emma Mörschel, detta Lämmchen, agnellino. Un matrimonio freschissimo, a causa di un’imprevista gravidanza, che comincia subito ad essere inghiottito dallo spettro della disoccupazione che porta miseria, smarrimento e minacce alla dignità, mentre il prossimo diventa incomprensibile e lontano. Lui è il kleiner Mann del titolo in tedesco, un «uno di noi», fragile, senza pretese, apolitico, piuttosto vago; Emma è figlia di una famiglia di duri operai socialdemocratici e comunisti, maltrattata in famiglia, commessina, dolce ma ferma.
E intorno, gli altri: la famiglia di Emma col fratello spinto ogni giorno in un cupo estremismo; la vedova Scharrenhöfer, la padrona di casa rovinata dall’inflazione; il contabile Lauterbach, arruolatosi nelle SA per rompere la noia; la madre di Johannes Mia, tenutaria di un bordello e il suo spregiudicato amante di buon cuore; il commesso Joachim, del movimento naturista. È il Volk, che al momento sembra avvertire solo risentimento e restituire ostilità, ma che presto Hitler illuderà di essere un unico protagonista: «Ora nessuno doveva più sentirsi in colpa perché non capiva cosa stesse succedendo o perché non partecipava – scrive Ralf Dahrendorf, nel testo che accompagna questa nuova traduzione. – Adesso c’era un ordine nel quale tutte le questioni venivano risolte. Ein Volk, ein Reich, ein Führer”.
Uno scenario che sembra coincidere con la società italiana piegata dalla pandemia e dalla desertificazione economica e il cui esito sarebbe stato analogo se in questi mesi non si fosse preparato un finale diverso di cui resteremo a lungo debitori nei confronti del Presidente della Repubblica, di Mario Draghi, di Matteo Renzi che come Hernan Cortes ha bruciato le navi e dei pochi (We few! We happy few!) che nell’isolamento generale abbiamo avvertito il pericolo incombente e che, per il momento, appare allontanato.
Ma, attenzione, ove si dovessero creare falle fatali durante o dopo il governo Draghi tali da rendere vano il Piano Marshall promesso all’Italia – purché velocemente si presenti tutt’affatto diversa da quella, confusa e pasticciona, che finora si è manifestata e nel frattempo non si fosse compiuta la transizione verso la razionalità da parte dei principali partiti con la conseguente fiducia da parte degli italiani in carne e ossa e non dei sondaggi, alle prossime elezioni – quel rischio potrebbe tornare più inquietante e pericoloso di prima e a nulla varrebbe aver eletto nel frattempo al Quirinale la migliore personalità disponibile per evitarlo.
E, la cosa più grave consiste nel fatto che non si tratterebbe di una marcia su Roma né di un golpe in cui tintinnano sciabole e fanno capolino colonnelli felloni, ma della legittima espressione del voto democratico, come avvenne in Germania nel 1933 e nella Turchia di Recep Tayyp Erdogan, a partire dal 2014.
L’intellettuale polacco Adam Michnik, convinto attivista anticomunista e anti totalitarista, vincitore del Premio Erasmo nel 2001 ha ricordato: «Di regola, la dittatura garantisce strade sicure e il terrore alla porta di casa. In democrazia le strade possono essere buie e insicure, ma chi bussa alla porta di casa nelle prime ore del mattino è molto probabilmente il lattaio».
Più feroce Leonardo Sciascia che ne “Il giorno della Civetta” ha scritto: «Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna».
Noi che crediamo essere la democrazia il più alto prodotto della civiltà umana non possiamo che concordare con chi come Pericle già duemila e quattrocento anni fa affermava convintamente che la più alta difesa delle istituzioni e dei valori della polis è esclusiva funzione del livello delle qualità umane di un popolo e dei suoi rappresentanti che lo mette in salvo dal populismo e dalla demagogia: «Noi abbiamo una forma di governo che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo altri, ma anzi siamo noi stessi di esempio a qualcuno. Quanto al nome, essa è chiamata democrazia, poiché è amministrata non già per il bene di poche persone, bensí di una cerchia più vasta: di fronte alle leggi, però, tutti, nelle private controversie, godono di uguale trattamento; e secondo la considerazione di cui uno gode, poiché in qualsiasi campo si distingua, non tanto per il suo partito, quanto per il suo merito, viene preferito nelle cariche pubbliche; né, d’altra parte, la povertà, se uno è in grado di fare qualche cosa di utile alla città, gli è di impedimento per la sua oscura posizione sociale».
Prima ancora che i miliardi dell’Unione, abbiamo ora in prestito mesi preziosi custoditi pro tempore da un uomo capace. Che i nostri figli e nipoti non siano costretti a dire un giorno che abbiamo sprecato entrambi.