Esclusi ma indispensabiliIl (non) ruolo del Terzo settore nel Recovery Plan

Per la Commissione europea, l’economia sociale e il non profit sono fondamentali per il rilancio dello sviluppo economico. Ma sembra che l’Italia non abbia ancora recepito il messaggio

Claudio Furlan/LaPresse

In un Piano che voglia ricostruire le condizioni per lo sviluppo non solo economico ma anche sociale dell’Italia, il ruolo del Terzo settore e dell’economia sociale dovrebbe messo in primo piano, piuttosto che nascosto tra le righe. Invece nel Pnrr il Terzo settore è citato, in qualche punto, ma senza molta convinzione. Dell’economia sociale nessuna traccia del tutto. Quasi fossero temi estranei al compito, assegnato al Piano, di indicare le strade per rigenerare un Paese stremato.

Eppure, se le indicazioni della Commissione europea su come spendere i fondi del NextGenerationEu fossero prese sul serio, andrebbe ricordato che Ursula von der Leyen, oltre ai temi del Green Deal e del futuro digitale dell’Europa, vede l’economia sociale e il non profit come uno dei perni per il rilancio dello sviluppo economico e sociale in Europa.

La Commissione europea non solo sta lavorando a un piano d’azione specifico, ma ha anche inserito l’economia sociale tra i cluster tematici su cui basare la ripresa della crescita europea. Non ci vuole la sfera di cristallo, quindi, per prevedere che nella valutazione dei programmi nazionali per l’utilizzo delle risorse di Next Generation Eu, l’attenzione a questi temi sarà tenuta in debita considerazione. Ignorarlo potrebbe non essere saggio.

Il presidente francese Emmanuel Macron è stato pronto nel recepire il punto. In France Relance – l’equivalente francese del Piano nazionale di ripresa e resilienza – l’economia sociale è indicata già in premessa come una delle principali chiavi di lettura tramite cui leggere l’intera strategia di rilancio.

Il piano italiano invece non sembra interessato a valorizzare adeguatamente il potenziale dell’enorme bacino di risorse, capacità e idee del Terzo settore. Nonostante le sue dimensioni e la diffusione capillare, che lo pongono tra i primi in Europa per rilevanza. E malgrado un quadro normativo aggiornato, che soddisfa la richiesta di Bruxelles di accompagnare l’uso delle risorse per il NextGenerationEu con interventi strutturali di riforma.

Il nuovo assetto giuridico del Terzo settore, varato nella scorsa legislatura, richiede un completamento ma in larga parte è già avviato, con evidente vantaggio rispetto ad altri ambiti di riforma dello Stato in cui il lavoro parte da zero (o quasi). Perché allora non cogliere l’occasione per farne uno degli elementi di punta del programma di rilancio?

È vero che, in generale, il Piano italiano tende a sorvolare sugli aspetti operativi e tace circa i soggetti chiamati a realizzare i progetti (a loro volta, ancora molto sommari o del tutto assenti). Ma questo tacere alimenta il dubbio che finisca per prevalere un approccio imperniato sulla pubblica amministrazione, per di più centrale, con tutto il resto (che non è poco) in posizione ancillare o marginale. Come se la storia di questi anni non avesse insegnato nulla.

Non avesse insegnato che il capitale sociale è un presupposto dello sviluppo economico, e non è pensabile che si rigeneri per intervento pubblico. Non avesse insegnato che i bisogni sociali sono cresciuti in volume, complessità e livelli di personalizzazione tali da rendere impossibile soddisfarli con soluzioni standard, a carico esclusivamente dello Stato. Non avesse insegnato che una parte sempre più rilevante di risposte alle nuove domande sociali nasce da organizzazioni senza scopo di lucro, che intercettano più direttamente le nuove esigenze e sono in grado di adattare più velocemente le proprie capacità di lettura dei bisogni.

Come si spiegherebbe altrimenti la crescita costante e consistente delle organizzazioni di Terzo settore, del volume dei servizi erogati, degli addetti e dei volontari, della quota di risorse private mobilitate? Perché di questo si parla: di un pezzo importante dell’economia nazionale che non lavora solo per l’inclusione sociale degli svantaggiati ma produce beni e servizi che riguardano parte rilevante dell’intera popolazione.

Oltre agli esempi più noti dell’inserimento lavorativo di persone con difficoltà e dei servizi per la cura degli anziani e dei portatori di handicap, basti ricordare le scuole per l’infanzia, l’housing sociale, l’impiego di giovani in servizio civile, il recupero e la gestione di centri sportivi e di immobili e terreni pubblici dismessi o sottratti alla criminalità organizzata, la realizzazione e gestione di servizi alle comunità, l’economia circolare, l’agricoltura sociale, ecc.

Questo sistema di enti e organizzazioni che hanno in comune il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, è la dimostrazione efficace che l’interesse generale in molti ambiti può essere realizzato anche attraverso l’azione autonoma di cittadini e comunità. Si chiama principio di sussidiarietà e sarebbe uno dei cardini del nostro impianto costituzionale. Ma il Piano nazionale non sembra ricordarsene.

Eppure, dove il Piano menziona come priorità la creazione di occupazione, il reskilling dei lavoratori, la creazione di presidi sociosanitari territoriali, la riqualificazione di aree urbane e aree interne, la stessa trasformazione del rapporto tra amministrazione e cittadini (passando dal paradigma del controllo a quello della fiducia) il contributo del Terzo settore e dell’economia sociale darebbe molta più concretezza agli obiettivi indicati. Limitare questa componente a funzioni marginali e prevalentemente assistenziali è una scelta che non va certo nella direzione della ripresa e della resilienza del Paese.