La Pravda di DudaLa Polonia usa alcuni giornali europei per diffondere la sua propaganda

Il governo polacco da due anni sta pagando una dozzina di media dell’Ue per pubblicare editoriali scritti da figure appartenenti o vicine allo Stato. L’obiettivo è far passare il Paese come un modello di democrazia, con una forte crescita e un settore economico adatto agli investimenti esteri

Lapresse

Lo scorso 22 gennaio sul giornale francese L’Opinion è apparso un articolo firmato dal presidente polacco Andrzej Duda, esponente del Pis, il partito di estrema destra che dal 2015 governa la Polonia. Da questo testo emerge un Duda diverso da come ci si è abituati a conoscerlo in questi sei anni. La sua riflessione si apre con un’esortazione a costruire un mondo «più verde, più allineato ai principi dello sviluppo sostenibile», nonostante il suo Stato sia risultato l’unico tra i 27 paesi Ue a non sottoscrivere l’impegno a decarbonizzare le proprie economie entro il 2050 promosso dalla Commissione europea nel 2019. 

L’articolo continua con un richiamo all’identità comune dei paesi dell’Europa centrale, fondata su esperienze storiche condivise. Tra cui Duda menziona la «Repubblica delle molteplici nazioni», intendendo probabilmente la “Repubblica delle due nazioni”, l’entità statale bicefala che nei secoli XV-XVIII inglobava gran parte dell’Europa centrale e che venne smembrata da un accordo tra Impero asburgico, Prussia e Impero zarista nel 1795 – nota in italiano come “Confederazione polacco-lituana”. 

Per chiunque segua le vicende politiche polacche, anche questo riferimento di Duda suona stridente. Il presidente polacco rivendica la “Repubblica delle molteplici nazioni” come un’antesignana dell’Unione europea, «un’unione politica volontaria capace di accogliere culture e religioni diverse», retta dai principi dello «Stato di diritto, del parlamentarismo e della democrazia». Questo nonostante la classe dirigente di cui Duda è espressione propugni un’idea della Polonia come Stato monoetnico (polacco), monoreligioso (cattolico), tradizionalista e ostile al multiculturalismo, e abbia commesso documentate violazioni dello Stato di diritto, meritandosi più procedure d’infrazione da parte della Commissione europea. 

L’articolo prosegue poi con l’elenco dei consessi principali che legano i paesi dell’Europa centrale (Gruppo Visegrád, il Gruppo dei nove e il Trimarium) e si conclude con una sorta di messaggio promozionale che promuove la regione come territorio tra quelli che si crescono più velocemente al mondo. 

Leggendo questo testo, si potrebbe facilmente scambiare Duda, membro di punta di una delle forze più reazionarie e conservatrici dello spettro politico europeo, per un moderno politico liberale, moderato ed europeista. 

Cosa c’è dietro? Come ci è finito un editoriale di Duda su uno dei più importanti quotidiani francesi? I dubbi sono legittimi. 

Che nel XXI secolo un leader politico pubblichi un pubbliredazionale (non indicato come tale) su una testata straniera è già di per sé un fatto inusuale. Se poi questo leader ha la tessera di un partito illiberale, ultracattolico ed euroscettico, ha definito «l’ideologia LBGT» come «peggiore del comunismo», ha vidimato leggi liberticide come quelle che hanno politicizzato il sistema giudiziario polacco e riceve spazio su una testata che si auto-proclama “liberale ed europea”, la vicenda di fa ancora più singolare. 

Lo spaesamento aumenta quando, facendo una rapida ricerca, si scopre che l’articolo del presidente non è affatto un’eccezione. Raggruppati sotto l’etichetta “Spécial Pologne” ci sono decine di pubbliredazionali ad opera di alti papaveri del Pis, di funzionari vicini a questa area politica e di storici – polacchi e non – di orientamento conservatore. 

Un Leitmotiv lega tutti questi contributi, scritti solo da uomini: tutti veicolano una versione vittimista, auto-assolutoria e sciovinista della storia polacca. La versione dell’attuale esecutivo polacco – diffusa in questo caso non solo dai suoi esponenti, ma anche da “esperti internazionali” che aderiscono in toto a questa vulgata.  

Scavando in rete, emerge inoltre, che questo genere di pubblicazioni non è apparso solo su L’Opinion, ma anche su altre testate straniere, tutte tendenzialmente liberali: Washington Post, Chicago Tribune, Die Welt, Sunday Express, Le Figaro, Le Soir, El Mundo. Un elenco meticolosamente compilato dagli organizzatori della campagna.  

Perché sì, questo florilegio di pubbliredazionali non è frutto di strategie indipendenti di comitati redazionali. È frutto di una campagna orchestrata a tavolino dal potere polacco, denominata “Raccontare la Polonia al mondo”, che parte da lontano. Dal 2019, o meglio ancora dal “1939”, come suggerisce il nome del sito dedicato al progetto.  

Lo scarso materiale disponibile di questa iniziativa si trova esclusivamente su fonti filogovernative. Le poche informazioni si possono reperire: sul sito del governo polacco; sul sito della Polish Press Agency (PAP), la storica agenzia di stampa statale della Polonia, trasformata dall’attuale esecutivo in un megafono per la propria propaganda; sul sito di The First News, il portale in inglese lanciato nel 2018, sempre dal governo guidato dal Pis, per bilanciare il fatto che la Polonia non fosse «raccontata in modo corretto dai media stranieri»; sul sito dell’Istituto per la rimembranza nazionale, che proprio questo mese ha nominato uno storico neofascista alla guida della sede di Breslavia. Nessuna testata indipendente ne ha mai scritto. 

Mettendo insieme i pezzi, si scopre che questa iniziativa è stata varata due anni fa, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’invasione nazista della Polonia. Agli occhi dell’intelligentsia ultra-nazionalista polacca, la ricorrenza forniva il gancio ideale per varare un’ambiziosa operazione di soft power. Un magniloquente errata corrige con cui rettificare le interpretazioni “errate” degli eventi della Seconda guerra mondiale condivise dalla maggioranza degli storici. Ovvero, la trasposizione sul piano internazionale della campagna di “ripolonizzazione” dei media, con cui il Pis ambisce a silenziare le voci critiche che ancora scuotono l’opinione pubblica polacca, dipinte come quinte colonne di potenze straniere. 

L’attuale dirigenza polacca è nota per essere ossessionata dalla memoria storica, ossessione che è travalicata anche nei tribunali, sempre più emanazione del potere esecutivo. Solo lo scorso mese, un giudice ha condannato due storici a rettificare delle informazioni pubblicate in una ricerca accademica perché, dimostrando che durante la Seconda guerra mondiale il sindaco del piccolo paesino di Malinowo collaborò con l’occupante nazista, avrebbero “infangato la memoria di un onesto cittadino”.   

A suggerire che è in ballo non ci sia tanto la storia quanto l’attualità non c’è solo il fatto che tra gli autori di questi commenti pubblicati dalla stampa straniera primeggino le figure di spicco del Pis, non esattamente storici blasonati – Duda è un avvocato esperto di diritto di proprietà, il premier Mateusz Morawiecki un economista. I testi non si limitano a celebrare eroi nazionali come Witold Pilecki, militare polacco che si infiltrò volontariamente ad Auschwitz nel 1940, ma connettono la riscrittura del passato alle rivendicazioni del presente. 

Esemplificativo il testo firmato da Morawiecki dove si legge: «gli squilibri economici che oggi esistono tra la parte occidentale e quella orientale dell’Europa sono la conseguenza a lungo termine di quanto avvenuto nel 1939». Un’affermazione quantomeno fuorviante, considerato che i livelli di progresso tecnico e crescita economica della Polonia inter-bellica non erano nemmeno lontanamente paragonabili a quelli della metà occidentale del Vecchio continente. 

Sostanzialmente, il governo polacco ha individuato e pagato testate straniere per ospitare pubbliredazionali senza commento, contestualizzazione o contraddittorio. I soldi li hanno garantiti il Ministero degli esteri e la Borsa di Varsavia, sponsorizzazione che spiega perché molti di questi pamphlet contengano inviti a investire in Polonia, sedicente modello di “capitalismo inclusivo”. Incastrati in mezzo o alla fine di accalorate perorazioni a tema storico, questi inviti escono non di rado abborracciati, come nella frase: «[la Polonia] dimostra che la solidarietà sociale, fondata su un sistema fiscale moderno e adatto alle sfide del XXI secolo, è compatibile con la costruzione di un’economia a base di concorrenza e innovazione».  

L’ente che gestisce concretamente questo progetto senza paragoni tra gli altri governi dell’Ue è l’Istituto per i nuovi media, agenzia di comunicazione diretta da Eryk Mistewicz, guru del marketing e spin doctor polacco molto legato alla Francia. Sul suo blog, Mistewicz racconta, inter alia, di aver collaborato alle campagne elettorali di varie forze politiche europee, tra cui l’Ump di Nicolas Sarkozy nel 2007, di aver formato «lo staff della Primavera araba» e di essere tra gli «artefici del successo di Twitter in Polonia». 

A fine gennaio Mistewicz ha annunciato l’avvio di una nuova fase del progetto, che fin dal titolo – “Il decennio dell’Europa centrale” – si professa più incentrata sulla promozione della Polonia agli investitori e meno sulla propagazione di letture para-storiche a fini politici. 

L’ultimo capitolo di una offensiva a metà tra storia e geopolitica che finora nessuno ha mai ricostruito, contestualizzato e confutato tramite il coinvolgimento di storici professionisti. 

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