Variante giallorossaDraghi, la ragnatela dei dpcm e il tracciamento degli imbroglioni

Cambiati i vertici della Protezione civile, sostituito il commissario all’emergenza e tradotte in un italiano comprensibile le misure restrittive, è giusto rallegrarsi, ma non rilassarsi. È l’ora delle scelte difficili, per ragioni sanitarie e politiche

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Dinanzi al diffondersi delle varianti e agli allarmi degli scienziati, Mario Draghi dovrebbe ora evitare gli errori commessi da Giuseppe Conte, facendo tesoro delle lezioni che il suo predecessore si è regolarmente rifiutato di imparare, nonostante le continue ripetizioni che la storia ha impartito a tutti noi dal marzo 2020 in poi. E la lezione principale è che i provvedimenti più duri vanno presi prima, vanno presi proprio quando l’opinione pubblica non è pronta a riconoscerne l’urgenza e la necessità, perché per vederle, quella necessità e quell’urgenza, bisogna avere sotto gli occhi le terapie intensive strapiene e le centinaia di morti (centinaia di morti che peraltro continuiamo a vedere ogni giorno, seppure in calo, e quasi non ci facciamo più caso).

In poche parole, si tratta di fare semplicemente il contrario di quello che ha fatto il governo Conte, sistematicamente e sin dall’inizio, con la complicità delle Regioni, di ogni colore politico, con cui ha giocato a scaricabarile: prima in Lombardia (con l’indimenticabile giro di telefonate al rallentatore su Alzano e Nembro) e poi in tutta Italia, prima in estate e poi in autunno, in agosto con le discoteche chiuse solo dal giorno 16 e in ottobre con la sfilza di dpcm a singhiozzo (uno a settimana per ben quattro incredibili settimane di totale negazione della realtà).

Chiunque abbia seguito questa vicenda con un minimo di attenzione non può non avere oggi una sensazione di angosciante déjà vu, di fronte alle grida d’allarme di chi indica il rialzarsi della curva, il numero troppo alto di contagi e la proiezione delle conseguenze di qui a qualche settimana in termini di ricoveri e di morti. Effetti prevedibili e certo non temperati dal troppo basso numero di vaccinati, senza dimenticare la maggiore infettività delle nuove varianti.

Cambiati i vertici della Protezione civile e il commissario all’emergenza, ridotta a due pagine e tradotta in un italiano comprensibile la selva dei commi, codicilli, congiunti, affetti stabili e ristori da stabilire (delizioso antipasto di quel che ci aspetta sul Recovery Plan), è giusto dunque rallegrarsi, ma non rilassarsi. Non è proprio il momento.

Ora è il momento di abbattere il numero dei contagi, per poter vaccinare il più in fretta possibile e auspicabilmente ripristinare – se l’italiano lo consentisse dovrei forse dire «pristinare» – un minimo di tracciabilità. Perché quello che serve, adesso, è un doppio tracciamento: quello degli infetti e quello degli imbroglioni. Quello di chi ha contratto il Covid, e che fino a oggi abbiamo pensato solo a come nascondere sotto il tappeto (do you remember Immuni?), e quello di chi oggi invoca continuità con il precedente governo, ma domani, al primo starnuto, state sicuri che correrà a dire che è tutta colpa del nuovo esecutivo.

«Quella che era una lenta discesa sta diventando una rapida salita – dice al Corriere della sera il fisico Roberto Battiston commentando gli ultimi dati dei contagi – ma con una differenza sostanziale rispetto a ottobre, quando è iniziata la seconda ondata: allora non c’erano 430.996 attualmente positivi, pari a otto volte il numero di fine settembre». E ci ricordiamo tutti cosa è successo da quel momento in poi.

Dopo averci lasciati immersi nella benzina dei contagi fino alle ginocchia, gli alfieri del governo giallorosso non aspettano che una qualsiasi scintilla per accusare Mario Draghi, Matteo Salvini, Matteo Renzi, i poteri forti, la Confindustria e la Spectre di avere appiccato l’incendio, e così perpetuare l’equivoco secondo cui loro sarebbero stati quelli del rigore e gli altri quelli dell’irresponsabilità. Ma la verità è che loro, quando erano al governo, erano quelli che non facevano niente, mentre gli oppositori di allora erano quelli che li sfidavano a fare ancora meno. Guai a ripiombare in un simile bipolarismo.

Draghi deve dunque stare attento a non cadere nella trappola di chi vorrebbe vederlo soffocare in un groviglio di codicilli inefficaci, come oggi sperano in tanti, nei partiti e nei giornali, in buon numero ancora prudentemente acquattati, ma ansiosi di potere saltar su a cantare vittoria, sostenendo che si stava meglio quando si stava peggio.

Ora tocca a lui dimostrare che si può fare, eccome, di più e di meglio, certo che si può, ma solo se si ha il coraggio di considerare razionalmente lo scenario peggiore, invece di aggrapparsi ogni volta al più inverosimile tra gli scenari migliori (come monito gli consiglierei di non addormentarsi mai la sera senza aver letto almeno qualche pagina di un libro intitolato «Perché guariremo», ma temo che sfortunatamente non si trovi più in libreria).

Ora tocca a Draghi spezzare il circolo di inerzia e propaganda grazie al quale ci siamo lasciati cogliere di sorpresa, ogni volta, da tutte le successive ondate del virus, e provare davvero a giocare d’anticipo. Per una ragione sanitaria e per una ragione politica. Per salvare vite (le nostre) e per salvare la faccia (la sua, che però è anche quella del governo). Una faccia che gli servirà per tirarci fuori dai guai nei prossimi mesi, e tanto più quando l’arrivo del semestre bianco, con l’impossibilità costituzionale di andare a elezioni anticipate, potrebbe scatenare le peggiori pulsioni autodistruttive, sempre ben presenti nel nostro sistema politico.