La solitudine di Enrico Letta, a due mesi dalla sua elezione, è un dato piuttosto insolito per un leader nuovo che soprattutto all’inizio normalmente attira persone e forze verso di sé. Invece da due mesi c’è questo strano silenzio dei big. Come uno scarico liberatorio di responsabilità dopo il confuso biennio zingarettiano, nel migliore dei casi. O come il segno di una attesa dei primi risultati, o dei primi inciampi. L’esito è quello di un segretario che pare predicare nel deserto, nella disattenzione dei suoi, nei silenziosi moniti non pronunciati ma sottintesi. Sarebbe sbagliato dire che sia già partita la caccia al segretario (ma diciamola bene: si aspetta Roma) e insomma la vita interna appare gelatinosa, direbbe Antonio Gramsci, non esattamente segnata da una nuova solidarietà al capo venuto da Parigi come era legittimo attendersi.
Il pasticcio di Roma è esemplare, da questo punto di vista: chi si è alzato per sostenere il segretario nel momento della sua prima, grossa difficoltà? Ma anche nelle riunioni (a porte chiuse, quindi possiamo sbagliare), non è che si sviluppi quella discussione attorno alla proposta del leader capace di rafforzarne l’impatto mediatico: vero che tre grossi calibri come Dario Franceschini, Andrea Orlando e Lorenzo Guerini sono impegnati al governo; vero che i vicesegretari Irene Tinagli e Giuseppe Provenzano forse non hanno ancora preso le misure del ruolo; vero che le due capigruppo Deborah Serracchiani e Simona Malpezzi hanno il loro bel da fare in Parlamento; vero che la sinistra di Goffredo Bettini è ancora alla ricerca di una strategia dopo il fallimento del contismo.
L’effetto è che a Letta resta sostanzialmente il cerchio magico lettiana: Francesco Boccia su tutti, e Marco Meloni, lo staff, forse in arrivo Paola De Micheli. Errore blu, se si continuasse così: la storia insegna che la chiusura nei rispettivi cerchi magici è l’anticamera del disastro.
Un po’ è anche colpa sua. Le correnti vivono e lottano, né si può pretendere la piattezza sovietica in un partito che si chiama democratico. Il punto è che finora Letta non è riuscito, o forse non ne ha avuto il tempo, di aprire le finestre del Nazareno facendo entrare aria fresca, gente nuova, competenze specifiche, giovani. Ha preferito finora rivolgersi al corpo tradizionale del partito (il questionario nei circoli, l’enfasi sul tesseramento, la web radio Immagina, pure ottima iniziativa però troppo rivolta solo all’interno). Tutto è rimandato all’autunno con le famose Agorà che dovrebbero finalmente dare un profilo nuovo a un partito troppo asfittico e molto ancora attardato ai giochi interni.
Da questo punto di vista, nella relazione alla Direzione di ieri Letta ha un po’ corretto il tiro restituendo centralità al discorso dell’autonomia del Partito democratico rispetto all’assillo delle alleanze (ridimensionando qui anche la funzione del Movimento 5 stelle), un capitolo al cui attivo Letta può legittimamente ascrivere il solo Articolo Uno di Bersani dato l’allargamento del solco con quel che resta dei riformisti. Ma era inevitabile che ridimensionasse la questione-M5s, dopo lo schiaffo di Conte su Roma. Ma non si capisce ancora dove porterà il décalage che vedeva Conte leader federatore, poi alleato principale, ora alleato fra altri.
Né si capisce però bene quale sia l’agenda politica del Pd che pure giura di volersi muovere nel solco del programma di Draghi: si avverte qui la paura di essere poco rilevanti proprio perché l’azione del presidente del Consiglio sovrasta tutto e tutti, dem compresi; ed ecco perché Letta cerca uno spazio vitale nella continua contrapposizione a Matteo Salvini. Con il rischio però di finire subalterni al capo leghista. Insomma, la collocazione del Pd dovrebbe in teoria essere abbastanza comoda e invece si rivela ogni momento precaria, come se la ricerca di se stessi fosse ancora un problema completamente aperto.
Con un segretario, Lone Enrico, che si muove molto e con generosità: ma sembra che si sia passati da un uomo solo al comando a un uomo isolato al comando.