È la più importante, la più influente, la più attesa. La guida Michelin ai ristoranti, secolare Bibbia per i gourmand, può cambiare i destini di ristoranti e ristoratori con il suo solo giudizio.
La costellazione con cui ogni anno punteggia di vari Paesi del mondo diventa una sorta di sentiero ideale del gusto, con i suoi sommersi e i suoi salvati. Ma tanta grandezza – è inevitabile – non può essere esente, ricorda questo articolo del Financial Times, dalle critiche. Alle quali si accompagna un silenzioso scetticismo, nutrito di rancore e qualche mito.
È diffusa la credenza, ad esempio (e molti chef sono pronti a giurare), che per la prima stella è essenziale la qualità della stoffa dei tovaglioli. Altri indicano i bastoncini aromatici nei bagni. Per averne tre non può mancare invece lo sgabello dove appoggiare la sedia (e che sia di qualità).
In realtà la guida sul tema è piuttosto chiara. Giudica «la qualità degli ingredienti adoperati, la padronanza dell’utilizzo dei sapori e delle tecniche culinarie, la personalità dello chef nel suo stile di cucina, il suo prezzo e la coerenza tra visite diverse». Insomma, si parla di cibo e nient’altro (non c’è nemmeno la voce “location” usata da Alessandro Borghese) e le stelle seguono criteri fissati nel tempo: una stella per «un ristorante ottimo nella sua categoria», due per «cucina eccellente, che vale la pena di una deviazione» (e molti ristoranti stellati hanno anche delle camere) e tre per «cucina eccezionale, che vale un viaggio speciale». È la terza stella che proietta il ristorante nel jet-set della ristorazione, trasformandolo in un luogo di ritrovo per élite che amano mangiare bene e possono spendere tanto.
Le critiche si concentrano su tre punti. Prima di tutto, la stella è una benedizione ma, per certi versi, è una condanna. Obbliga il ristoratore ad adeguarsi a uno specifico stile, disincentiva gli esperimenti e ne blocca la creatività.
Il secondo è di ordine logico-matematico. Se è vero – come la guida sostiene – che per fare le sue valutazioni invia gli ispettori (in incognito) in un ristorante più volte nel corso dell’anno, risulta difficile fare quadrare i conti. I locali sono tanti, le spese anche di più (ogni critico gastronomico è pagato e in più gli sono spesati viaggi e pranzi), forse troppe per le dimensioni dell’organizzazione.
Infine – e questo è forse il rilievo più feroce – è troppo francese. Per il gusto, per lo stile, per le preferenze. Rischia di omogeneizzare un’offerta varia e diversa nel mondo.
È così? Non proprio. Prima di tutto, come fa notare lo stesso quotidiano britannico, la stella Michelin è solo un’opinione, per quanto autorevole. Ognuno ne fa ciò che vuole: la può ignorare e proseguire per una strada di sperimentazione oppure la può utilizzare per farsi pubblicità e attirare nuovi clienti (o alzare i prezzi).
In più alcuni chiarimenti sono necessari: non è un premio, per cui non può essere restituita. Se qualcuno per qualche ragione non la volesse ha soltanto da modificare il menu. E soprattutto, (nonostante la dicitura sempre più comune) non è un riconoscimento per lo chef ma per il ristorante. Giudica l’insieme, che è sempre lavoro di squadra.
Sulla questione logico-matematica, in assenza di dati (e gli unici che li possiede è proprio la Michelin) non si può dire nulla. Esclusi gli stellati, non si sa quanti ristoranti vengano visitati all’anno, non si sa quali e non si sa quando. Il sistema di segretezza, che certifica la serietà e l’imparzialità del giudizio, è serrato. Alcuni chef, di fronte a qualche cliente in grado di fare le domande giuste, nutrono qualche sospetto. Ma non c’è mai la certezza.
Infine, sulla francesità, il dibattito è aperto. La Michelin, nata per premiare la haute cuisine, seguirebbe il concetto, tutto francese, della gastronomia come espressione culinaria delle belle arti. Cercherebbe, di conseguenza, lo stesso modello in ogni angolo del mondo.
È una accusa rifiutata da molti chef, che riconoscono invece la capacità della guida di apprezzare la diversità di sapori e stili, anche in sintonia con le varie culture e i Paesi. Del resto, la prima stella riconosce per definizione la qualità di un ristorante «nella sua categoria».
Piuttosto il problema (se lo si vuole chiamare così) è il fatto di avere fissato uno standard basato su criteri generali e internazionali, seguendo un concetto di viaggio e turismo gastronomico occidentale. Si rivolge anche a una platea internazionale, che altro non sarebbe che un jet set in grado di muoversi ovunque, con una formazione comune e un orientamento di gusto preciso.
Sarà. Ma – riconosce sempre il Financial Times – l’impressione è che molti di questi attacchi nascano da ragioni più basse di quanto non si ammetta (invidia, e nel caso dei britannici, il vecchio rancore nazionalistico) e che siano rafforzati dal fatto che la Guida Michelin non risponde mai.
Tutto sommato, non ne ha bisogno.