Senza toccare la punta di catastrofica incultura del segretario del Partito democratico, quello per cui il campo è diviso tra garantisti e impunitisti, l’idea che il garantismo comme il faut sia quello attento anche ai diritti dei colpevoli è tuttavia fuorviante. È pressappoco questo il luogo comune, di apparente ragionevolezza e affettabile con poca spesa, diffuso presso la specie di ecumenismo giudiziario che governa certa curva attenta ai diritti. Ma non ci siamo. Perché di fronte all’abuso di Stato, davanti alla violazione della legalità che viene dai lombi della stessa legalità, insomma a petto dell’arbitrio del potere pubblico non esistono colpevoli, ma solo innocenti.
Il mafioso tormentato dalla legislazione antimafia non è un colpevole: è un innocente, e tutelarne i diritti non significa proteggerlo “non ostante” sia colpevole, ma in quanto innocente. Almeno in ottica liberale, infatti, garantismo non è l’atteggiamento pietoso che soprassiede alla malvagità del colpevole riconoscendogli qualche diritto: è l’imperativo di considerarne l’innocenza, per così dire, a prescindere e cioè siccome connaturata nel fatto che egli è sottoposto all’ingiustizia di Stato.
Il legislatore, magari anche ben intenzionato, che vuol trattati meglio i destinatari della pretesa punitiva dello Stato, adempie solo in parte al proprio dovere garantista e non è poi molto diverso rispetto al prete che assicura conforto ai detenuti se non comprende, inoltre, di dover apprestare le medesime garanzie non perché esse debbono essere riconosciute anche ai colpevoli, ma perché essi, quando subiscono l’ingiustizia di Stato, sono in realtà innocenti.
Il feroce assassino ingiustamente deprivato di un diritto non è un colpevole in favore del quale reclamare il ripristino del diritto leso: è un innocente, cioè una persona che senza nessuna colpa è stata sottoposta a un’ingiustizia. Attenzione, dunque: è in ogni caso il pregiudizio retributivo quello che induce a rivendicare garantismo per i colpevoli.