Attacco alla stampaLe reazioni alla propaganda anti Ue di Viktor Orbán su alcune testate europee

Alla fine di giugno il premier ungherese ha fatto uscire su diversi quotidiani del continente un editoriale, firmato da lui, in cui attacca l’UE. Molti direttori però si sono opposti, criticando la scelta di un presidente che da quando si è insediato si è impegnato ad annullare la libertà di informazione nel proprio Paese

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Alla fine di giugno vari giornali europei di orientamento conservatore, tra cui il danese Jyllands-Posten, lo spagnolo ABC e il francese Figaro, hanno pubblicato una sorta di editoriale firmato dal premier ungherese Viktor Orbán.

L’editoriale – un riassunto breve delle idee presentate da Orbán a una conferenza tenutasi a Budapest qualche giorno prima della pubblicazione – avanza una «nuova proposta per l’Europa», suddivisa in sette punti.

Tre le altre cose, Orbán sostiene: che «Bruxelles» voglia creare un superstato «senza averne mai ricevuto il permesso»: che l’Europarlamento sia ormai incapace di svolgere la propria funzione; che l’integrazione sia «un mezzo, non un fine»; che la Serbia dovrebbe entrare presto nell’Unione europea.

Non è chiaro quanti siano stati i giornali contattati e quanti abbiano effettivamente pubblicato questo pubbliredazionale. Nella maggior parte dei casi sembra che questo contenuto sia stato correttamente segnalato come «pubblicità a cura del governo ungherese».

Alcune testate, soprattutto belghe, hanno comunicato di aver declinato la proposta, reagendo anche in modo proattivo.

Il belga De Morgen ha spiegato di aver scelto di non pubblicare il manifesto orbaniano perché contenente ricostruzioni non supportate da dati, come sulle Ong, e inesattezze fattuali sul funzionamento delle istituzioni europee e il rapporto che intercorre tra loro.

In modo simile ha agito anche La Libre Belgique. De Standaard si è spinto oltre, pubblicando un’intera pagina con la bandiera arcobaleno LGBT con al centro la bandiera ungherese e la scritta «Caro Viktor Orbán, le leggi non dovrebbero mai distinguere l’amore dall’amore».

L’operazione del governo ungherese è avvenuta infatti in un momento di estrema tensione tra Budapest e il resto del blocco sul tema diritti LGBT.

A metà giugno il parlamento ungherese ha approvato una norma che proibisce la pubblicazione di materiale che possa essere accusato di “promuovere l’omosessualità” e il cambio di sesso a un pubblico di minorenni. La legge, che interessa i programmi di educazione sessuale nelle scuole, i film e la pubblicità, è considerata talmente restrittiva che perfino la visione della saga di Harry Potter potrebbe essere vietata.

Questa ennesima violazione del diritto e dei valori comunitari da parte del governo ungherese, arrivata proprio in quel periodo dell’anno dove si tengono la maggioranza dei Gay Pride europei, ha provocato una levata di scudi da parte della maggioranza degli esecutivi europei.

Capeggiati da Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo (il cui premier, Xavier Bettel, è dichiaratamente gay), sedici governi dell’Unione hanno siglato una lettera di condanna molto dura. Inoltre, la proposta del sindaco di Monaco, Dieter Reiter, di illuminare con i colori della bandiera LGBT lo stadio della città bavarese durante il match Germania-Ungheria dello scorso 23 giugno – poi cassata dall’Uefa – ha fatto tracimare questa questione politica anche agli Europei di calcio.

Non è raro che un governo compri spazi su giornali stranieri per diffondere le proprie idee, specie se – come in questo caso – queste idee riguardano questioni di interesse per l’intera opinione pubblica europea.

A rendere particolarmente controversa questa opzione c’è però il fatto che, da quando si è insediato (2010), il governo in questione ha agito per annullare la libertà di stampa nel proprio Paese. Un processo di inaridimento dell’opinione pubblica acceleratosi negli ultimi anni e che su queste pagine abbiamo documentato con precisione, raccontando la comunicazione lacunosa del governo sulla Covid-19; l’attacco sistematico, calcolato e impunito a giornalisti e giornali stranieri rei di contestare le versione ufficiali; l’assoggettamento del mondo universitario.

Come riassunto dal caporedattore di De Standaard Karel Verhoeven nell’editoriale dove spiegava perché il suo giornale aveva preferito non pubblicare il pamphlet dell’autocrate magiaro, «è troppo cinico vendere spazi a un leader di governo che sta combattendo la stampa libera nel proprio Paese».

La vicenda ha ricordato da vicino il caso – ben più imponente in termini di risorse, giornali coinvolti e capillarità – di “Raccontiamo la Polonia al mondo”, l’invettiva storico-politica con cui da circa due anni il governo polacco va propagandando le proprie interpretazioni faziose degli eventi storici del Novecento e delle loro ricadute sull’attuale situazione economica, sociale e geopolitica della Polonia.

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