Senza le donne che la popolano la Divina Commedia non varrebbe nulla. Forse non esisterebbe nemmeno. Non si parla solo di Beatrice o della Madonna, con cui il poeta corona il suo viaggio celeste: tutto il poema è costellato di figure femminili. Alcune sfuggenti, appena tratteggiate. Altre misteriose, cui si allude attraverso rimandi mitologici. C’è chi appare in coppia e chi, con pochi versi concisi, chiude un canto dominato dalle lagne logorroiche degli uomini.
Un mosaico che l’artista italiana che vive a New York Marina Sagona ha raccolto con i suoi ritratti. Ne ha raffigurato il carattere, immaginato attraverso i versi, o la storia che veniva raccontata. Lei ha disegnato, altre nove scrittrici hanno accostato un racconto/saggio a una figura di loro scelta. Il risultato è “La Commedia delle donne / The Comedy Of Women”, edito in Italia dall’editore ravennate Angelo Longo.
Nove racconti (ha mantenuto la struttura dantesca a multipli di tre) ispirati ad altrettanti ritratti e preceduti tutti dal rispettivo canto dantesco. Una catena creativa che, come sottolinea lo scrittore Colum McCann (unico uomo) nella prefazione, definisce «la migliore arte», cioè quella che «crea, suggerisce e ispira altra arte». E allora ecco Francesca, il cui volto nel dipinto sembra prendere forma emergendo da un buio infinito, che viene raccontata da Judith Thurman, in un Inferno ormai dismesso, sorta di luna park in fase di smontaggio, dove le anime sono liberate e possono tornare alla vita di una volta. Ma Francesca, al contrario di Paolo, non vorrà.
Oppure le Arpie, figure che si nutrono delle urla dei suicidi, quasi figure disciolte per Sagona e che diventano, nell’immaginazione di Sophie Gee, la personificazione della rabbia quotidiana di una relazione dominata da dolori e silenzi. A Jhumpa Lahiri tocca raccontare Manto, la profetessa che non vede, mentre Carol Muske-Dukes immagina Pia de’ Tolomei come simbolo della ricerca della verità: «Le sue parole agghiaccianti mi sembra dicano chiaramente che vuole qualcosa di più del paradiso. Pia vuole che anche la storia del proprio omicidio sulla terra venga raccontata, ma che a raccontarla sia il suo indimenticabile quasi-haiku».
I tratti sono allusivi, le raffigurazioni sembrano emergere da una nebbia: quella del passato, dell’indefinito, del racconto stesso. I dipinti di Marina Sagona sono cenni a un universo di possibilità e di interpretazioni perché, nella sostanza, ogni donna di Dante è al tempo stesso tutte le donne possibili. Lia (raccontata da Nicole Krauss) è la maleamata, la non bella. Cunizza (vista da Leslie Jamison) vince la sua lussuria con la generosità, Beatrice (per Claire Messud) è una sbarazzina fanciulla di Firenze, dal carattere deciso e dalla natura perfida, ben lontana dall’idea irreale che si era fatto di lei lo stesso Dante. Lei da giovane lo sfugge, mentre quando lo rivede in Paradiso ne capisce la grandezza: «Come diceva sempre mia madre, la vita è la vendetta dei secchioni, e ora che Dante è un pezzo grosso, la gente lo ascolterà. Non ho letto il libro che ha scritto sulla sua visita, ma credo abbia capito, credo mi abbia capito meglio, abbia capito quali sono le parti di me che contano. O almeno lo spero».
Lo stesso vale per il libro di Marina Sagona. Ha capito Dante e ha capito la Commedia, con le parti che più contano, quasi meglio di un trattato, o di uno studio filologico. Perché, come spiega sempre McCann, le donne di Dante «esistono adesso, eppure ci rendiamo conto che, ovviamente, esistevano allora. Diventano eterne. Sagona fa quello che hanno sempre fatto i grandi artisti: isola il nucleo del significato, svuota la cornice di tutto tranne che del necessario, e poi ce lo trasmette».