La scorsa settimana è stata pessima per Mark Zuckerberg. È cominciata il down globale di Facebook, Whatsapp e Instagram per sei ore (e sette miliardi di dollari persi) ed è finita con il premio Nobel per la pace alla giornalista filippina Maria Ressa, molto critica nei confronti della piattaforma. Ma soprattutto martedì a Washington c’è stata l’audizione di fronte al Senato (Sottocommissione per la Protezione del consumatore, Sicurezza del prodotto e dei dati) della whistleblower Frances Haugen, ex dipendente di Facebook, che nelle scorse settimane ha pubblicato migliaia di documenti interni della società che fanno luce sulle enormi falle interne in fatto di sicurezza dei dati.
Sono i cosiddetti Facebook Files, raccolti dal Wall Street Journal in una inchiesta in più puntate dove si dimostra come i vertici siano al corrente di tutti i problemi della piattaforma, pur evitando di intervenire per non danneggiare i ricavi.
Facebook, si è scoperto, non applica le regole sulla moderazione dei contenuti in modo equo a tutti gli utenti: alcuni – i cosiddetti VIP inclusi nel programma Xcheck – sarebbero più uguali degli altri, esenti cioè da shadow-ban o rimozione. Facebook, si è scoperto ancora, sa bene da alcune ricerche interne, che Instagram ha un effetto dannoso sulla percezione di sé delle utenti (ma non fa niente per cambiare). Facebook, di nuovo, applica il controllo dei contenuti in modo diverso a seconda dei Paesi e quelli in lingua non inglese sono controllati in modo meno attento e vigile. La piattaforma sa di essere usata dai cartelli messicani della droga, o dall’esercito etiope per promuovere campagne di odio, o ancora per il traffico di organi o per la repressione da parte di alcuni Stati autoritari: le segnalazioni ci sono, ma cadono nel vuoto. E ancora: il cambio dell’algoritmo del 2018, pensato per migliorare l’esperienza degli utenti, ha portato a una crescita dell’hate speech: anche qui, la società sapeva ma non ha fatto nulla.
Nella sua esposizione al Senato Frances Haugen, che a Facebook si occupava proprio del monitoraggio e il contrasto della disinformazione, è stata chiara e tagliente. Oltre a denunciare l’assenza di trasparenza e l’incapacità di rimediare alle proprie mancanze, ha proposto alcuni rimedi: nominare un corpo governativo di controllo, composto da ex lavoratori tech. Oppure modificare il Newsfeed in modo che i contenuti appaiano in ordine cronologico e non secondo le regole (sconosciute) dell’algoritmo. O anche imporre a Facebook di rendere pubbliche le sue ricerche interne.
Tutte ipotesi su cui si discuterà in futuro. Perché – e questo è il dato più importante – Frances Haugen ha avuto un sostegno molto ampio, che comprende i Senatori, che sono apparsi molto più informati rispetto al passato sui problemi legati alla tecnologia e al controllo dei dati, sia strutture di accoglienza e aiuto per i whistleblower. Dopo di lei, è lecito immaginare, ne verranno anche altri e la situazione per il colosso di Menlo Park diventerà ancora più grave.
È quello che sostiene questo articolo del Guardian, che individua nel triennio 2018-2021 il periodo che, in futuro, potrebbe essere indicato come l’inizio della fine di Facebook, la caduta rovinosa – con espressione shakespeariana – della «casa di Zuck». Del resto il copione sembra ripetersi: un whistleblower che scoperchia verità scomode, uno scandalo che finisce sui giornali, Mark Zuckerberg che scompare dai radar e una serie di dirigenti di seconda fila che difendono a spada tratta i social.
Nel 2018 si trattava del caso Cambridge Analytica, la società britannica di consulenza elettorale che, come rivelavano i documenti diffusi da Chris Wylie, il whistleblower, aveva approfittato di una falla di Facebook (e del suo silenzio) per impadronirsi dei dati di 87 milioni di americani, impiegati poi nella campagna di Donald Trump del 2016. Nel 2021 invece sono documenti interni alla stessa società di Zuckerberg, che vanno a confermare le voci e le storie uscite nel frattempo.
Tre anni fa il caso, oltre a infiammare i giornali di mezzo mondo, aveva portato a una sanzione di cinque miliardi di dollari da parte della Federal Trade Commission (FTC). Aveva sollevato altre indagini – tutte finite in nulla, o quasi – e una insistente preoccupazione sui modi con cui la piattaforma gestiva e custodiva i dati, oltre alla sua leggerezza nei confronti dell’hate speech e delle fake news. I vertici di Facebook si sono scusati, hanno fatto promesse e non le hanno mantenute. Nessuno di loro ha subito ripercussioni.
Stavolta le circostanze sono diverse. Come ha fatto notare Hauger, Facebook non sembra in grado di risolvere da sola i problemi. Come ha dichiarato al Senato, la società di Zuckerberg «è bloccata in un circolo vizioso in cui non riesce ad assumere nuovo personale». Questo porta a varare progetti controllati da poche persone, da cui scaturiscono nuovi scandali che rendono ancora più difficile assumere nuovi dipendenti. Ad esempio, i post che incitavano all’odio contro i rohingya in Myanmar, si era scoperto, non venivano cancellati dalla piattaforma perché la moderazione dei contenuti era affidata a pochissime persone, che parlavano soltanto una delle numerose lingue usate nel Paese.
Ma non è solo questo: lo scontro è anche legale. La FTC ha ripreso la sua battaglia per scorporare Facebook, mentre una denuncia degli azionisti in Delaware mira a dimostrare che la società, sempre nel quadro dell’accordo del 2018 con la FTC, abbia mentito agli investitori. Tutte queste cose – e l’ultima in particolare – potrebbero portare al crollo dell’impero di Mark Zuckerberg, e alla fine di Facebook per come lo conosciamo, sia per il business che per il controllo dei dati. Visti i danni fatti, sarebbe anche ora.