Mollo tuttoLe Grandi Dimissioni sono arrivate anche in Italia

Il fenomeno è cominciato in America ed è approdato anche in Europa. Le ragioni sono sia personali che economiche: si cercano lavori migliori e meglio pagati. Qui è diffuso in modo particolare tra chi possiede un contratto a tempo indeterminato

di Laura Davidson, da Unsplash

La Great Resignation sta arrivando anche in Italia. In modo più timido e limitato che altrove in Europa o Oltreoceano, ma i primi segnali di un incremento delle dimissioni volontarie di lavoratori sono già visibili.

Come molte altre tendenze socio-economiche, il fenomeno è iniziato negli Usa, subito dopo la fase più acuta della pandemia. Dall’inizio del 2021 quasi ogni mese viene battuto un nuovo record di dipendenti dimissionari. Prima del Covid erano poco più di 3,5 milioni al mese, a metà dell’anno hanno raggiunto quota 4 milioni, fino a toccare i 4,4 milioni a settembre.

Non si tratta solo di un (ovvio) effetto rimbalzo, cioè la somma dei tanti che, bloccati durante i lockdown, non avevano potuto cambiare lavoro e hanno recuperato dopo. C’è qualcosa di più.

Quello che spinge in tanti ad andarsene è un mix di fattori: c’è la rivalutazione, a causa della pandemia, del valore del tempo libero e della famiglia, c’è il rifiuto di condizioni lavorative troppo pesanti in termini di ore, ma contribuisce anche una forte domanda delle aziende in diversi settori. Cambiare frequentemente posto per strappare salari maggiori, insomma, conviene. Non a caso molte imprese americane hanno problemi a trovare personale, in particolare nei comparti a bassi salari, come la ristorazione.

L’Europa, a pochi mesi di distanza, ha cominciato a seguire lo stesso trend. Il vacancy rate, ovvero il tasso di posti vacanti, è, infatti, ai massimi anche nell’Unione Europea, secondo gli ultimi dati di Eurostat. Nel terzo trimestre di quest’anno le posizioni rimaste scoperte sono salite al 2,4%, appena sopra il massimo del 2,3% toccato nel primo del 2019, con picchi nei Paesi che storicamente hanno tassi di disoccupazione più bassi, come Repubblica Ceca (5,1%), Belgio (4,7%), Paesi Bassi (4,2%), Austria (3,8%), Germania (3,3%). Ad abbassare la media sono Spagna e Grecia, sotto l’1%, e l’Italia, che con il suo 1,8% raggiunge anch’essa un piccolo record.

Non sono, tuttavia, questi numeri – ancora piccoli – a nascondere la realtà di un incremento delle dimissioni volontarie, che nell’estate di quest’anno hanno superato la quota di mezzo milione. In precedenza non si era andati oltre le 436.754 dell’ultimo trimestre del 2019.

Tale aumento è in parte compensato da una riduzione dei licenziamenti economici. Questi ultimi, oltre al blocco in vigore fino a pochi mesi fa, scontano anche la presenza delle moratorie e del credito agevolato che sono riusciti a tenere a galla molte imprese. Al contrario, sono rimaste stabili le cessazioni per fine contratto e sono cresciuti i licenziamenti disciplinari.

Dati Inps

La dimostrazione che qualcosa si sta muovendo viene dai dati sul comparto che rimane, nonostante tutto, ancora il più numeroso, ovvero quello dei lavoratori a tempo indeterminato.

Qui sia nel primo che nel secondo che nel terzo trimestre la quota di cessazioni motivata da dimissioni volontarie è stata decisamente più alta di quella che si riscontrava nello stesso periodo del 2018 o del 2019. Si è arrivati intorno al 70%, contro valori inferiori al 60% pre-pandemia.

E si comincia a intravedere un effetto simile anche per quanto riguarda i contratti a termine, dove le dimissioni hanno superato il 15-16% di tutte le risoluzioni, mentre prima erano tra l’11% e il 14%.

Dati Inps

In valore assoluto si può notare ciò che si diceva, ovvero come anche tra chi ha il “posto fisso” i minori licenziamenti economici per ora compensino l’incremento delle dimissioni, arrivate a 287.400 tra giugno e settembre. Ma per quanto? A meno di pensare che oggi tali dimissioni siano forzature sostanzialmente illegali con cui le imprese costringono il lavoratore ad andarsene “volontariamente” per non doverlo licenziare, e non ci sono ragioni per pensarlo, allora qualcosa sta effettivamente accadendo.

Dati Inps

Qualcosa ancora poco avvertibile, ma – dato significativo – di omogeneo sul territorio nazionale. Un po’ ovunque, infatti, è percepibile l’aumento delle dimissioni in aprile, maggio, giugno 2021 rispetto agli stessi mesi del 2021. E quando i dati del periodo successivo saranno resi pubblici dall’Inps, con tutta probabilità non potranno che confermare la tendenza in atto.

Dati Inps

Prendendo in esame i numeri di giugno emerge il fatto che nel Nordovest e nelle Isole l’incremento delle dimissioni volontarie rispetto al 2018 è leggermente più alto che al Sud, ma le differenze sono poche. Sono più significativi, invece, i divari tra le macro-aree per quanto riguarda il trend dei licenziamenti economici e delle cessazioni per fine contratto: nel primo caso vi è un crollo inferiore al Nord, area con un’economia strutturalmente più robusta, mentre nel secondo il calo o è più piccolo o addirittura si trasforma in un piccolo incremento proprio nel Sud e nelle Isole, dove il lavoro precario è più diffuso.

Dati Inps

Un’inchiesta di Ypulse sottolinea che nell’Europa Occidentale ben il 20% dei Millennials ha lasciato il proprio posto di lavoro nell’ultimo anno. E come in Usa anche nel Vecchio Continente tra le cause vi sono sia la ricerca di migliori opportunità e paghe più alte, sia una maggiore attenzione alla tutela della propria salute mentale, sia l’aspirazione a un “work-life balance” più sostenibile.

Anche in Italia è così? Tutto fa pensare di sì. Le percentuali saranno (per ora) inferiori alle medie europee, ma dobbiamo ammettere che molti dei fattori che determinano la Great Resignation altrove sono presenti anche nel nostro Paese.

Tra questi una sorta di burn-out dei più giovani, della generazione che è stata più abituata ad essere flessibile e cambiare lavoro. Costretta per anni a farlo in modo forzato, attraverso il mancato rinnovo di contratti a tempo determinato da sostituire con altri ugualmente a termine, ora ha imparato a passare da un posto all’altro da sola, e a farlo anche una volta ottenuto il cosiddetto “posto fisso”, che non è più concepito veramente come tale.

La flessibilità è, giustamente, tale da entrambi i punti di vista. In parte ora anche le aziende la stanno subendo, venendo messe di fronte a dimissioni improvvise che le lasciano sotto organico. Non si tratta, come qualcuno potrebbe pensare, di una sorta di vendetta o di contrappasso, è solo il mercato. E potrebbe essere un’opportunità per molte, uno stimolo a diventare più produttive, più attrattive grazie ai maggiori stipendi che una maggiore produttività può consentire, a non sottovalutare l’importanza delle risorse umane.

Dal lato dei lavoratori vi è probabilmente una certa disillusione, si è smesso di credere che accettando ogni sacrificio, ogni carico di lavoro extra-orario, poi sarebbe arrivato il premio, la promozione, l’aumento. Per molti questo momento non è mai giunto. La pandemia ha reso ancora più chiaro questo fatto, e in tanti hanno capito che la cosa migliore è darsi da fare da soli, cercare di meglio. Anche in questo caso si tratta in fondo di un dato positivo, vi è una maggiore presa di coscienza e una maggiore consapevolezza del fatto che almeno un po’ si deve saper essere “imprenditori di se stessi”.

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