La formazione del nuovo governo tedesco, avvenuta a dicembre, ha visto tornare in maggioranza i Verdi, lo storico partito ecologista le cui origini risalgono ai movimenti ambientalisti attivi in Germania Ovest negli anni Settanta. Grazie al 14,6% ottenuto alle urne a settembre, infatti, il partito è stato centrale nelle negoziazioni per formare una maggioranza con socialdemocratici e liberali, e avrà ora la possibilità di incidere in maniera rilevante sull’azione di governo, in particolar modo sulle misure di contrasto al surriscaldamento globale.
Le politiche climatiche sono un tema molto sentito nel dibattito politico e presso l’opinione pubblica tedesca, spesso più che in altri Paesi europei. Nel corso del suo primo discorso di fine anno, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha affermato come la pandemia, tema prioritario per il governo, stia togliendo tempo e risorse ad altre questioni che vanno affrontate con urgenza, prima fra tutte la lotta al cambiamento climatico. Nelle parole di Scholz, la decarbonizzazione del Paese e la lotta alle emissioni rappresenteranno «la più grande trasformazione dell’economia da oltre cento anni», arrivando a influenzare moltissimi settori e aspetti della società.
Per i Verdi, quindi, è fondamentale riuscire a incidere sul tema per dimostrare di essere un partito all’altezza della responsabilità di governo, giustificando di fronte al proprio elettorato l’ingresso in maggioranza. Per farlo, servirà lavorare con i socialdemocratici e superare le resistenze dei liberali. Proprio in quest’ottica, il co-segretario del partito Robert Habeck ha ottenuto il ministero dell’Economia, ampliandolo in ministero per l’Economia e il clima. La settimana scorsa, però, Habeck ha rilasciato un’intervista a Die Zeit, storica testata vicina alla Spd, in cui ha affermato come l’azione di governo stia iniziando con “degli arretrati» e che sicuramente la Germania non riuscirà a realizzare i suoi obiettivi per il 2022, e «anche per il 2023 sarà abbastanza difficile».
La situazione tedesca, in effetti, è particolarmente complicata. Nel 2019, la Germania è stata uno dei primi Paesi a dotarsi di una legge sul clima, che stabilisce una quota di riduzione annuale delle emissioni per ogni settore, spalmandola in misura proporzionale sugli anni seguenti qualora l’obiettivo non venisse raggiunto. Prima di allora, gli obiettivi climatici erano disseminati in leggi nazionali, programmi governativi o fonti europee e internazionali. Tuttavia, già nel 2021, anche per via di una serie di critiche dei movimenti ambientalisti vicini ai Verdi, la Corte Costituzionale ha chiesto al Parlamento di aggiornare il testo, le cui disposizioni post-2030 erano troppo vaghe. Il Bundestag pertanto ha previsto obiettivi più stringenti, ad esempio il raggiungimento della neutralità climatica nel 2045 e un tasso negativo di emissioni nel 2050.
Già durante la formazione del governo, proprio la vaghezza di alcuni propositi in materia climatica aveva spinto i Grüne a esprimere perplessità su come stessero andando le negoziazioni, facendo pressione sulla SPD. L’accordo finale poi raggiunto ha previsto l’abbandono del carbone entro il 2030 e quello del gas naturale entro il 2040, insieme a investimenti su idrogeno ed energia solare e la conferma della messa al bando dei motori a combustione a partire dal 2030.
Si tratta di obiettivi ambiziosi, raggiungibili però solo a fronte di alcuni cambiamenti radicali e di scelte politiche su cui l’attuale maggioranza non è sempre d’accordo. Insieme alla Polonia, la Germania è il Paese UE con più emissioni dovute al carbone, nonostante l’uso di questa fonte sia diminuito sensibilmente negli ultimi decenni. Recentemente, inoltre, la politica energetica tedesca è stata al centro di tensioni geopolitiche per via di Nord Stream 2, il progetto di costruzione di un secondo gasdotto proveniente dalla Russia. Nel 2020, a seguito del caso Navalny, in Germania si è discusso seriamente sull’opportunità di fermare il progetto, e proprio i Verdi sono stato il partito più favorevole all’ipotesi per via delle loro posizioni in politica estera e materia energetica. Solo a luglio 2021 la situazione si è parzialmente placata, grazie a un accordo tra Washington e Berlino che ha però lasciato parecchi malumori tra i Paesi est-europei. Ad oggi, il gasdotto è completato, ma non è ancora attivo per questioni burocratiche, circostanza che però continua a far sperare alcuni in un suo blocco definitivo.
In questo scenario, sono proprio i Verdi a essere più in difficoltà. Tradizionalmente contrari al nucleare, i Grüne vorrebbero chiuderla quanto prima anche con il gas naturale. Ma con l’abbandono del nucleare nel 2022 e del carbone nel 2030 (secondo le intenzioni del governo), il gas diventerà una fonte fondamentale, per la produzione di energia elettrica, anche se per un periodo limitato. In questa prospettiva, i Verdi si trovano in una situazione scomoda, tanto più perché al governo con i liberali della FDP, per i quali invece il gas è una fonte che va sfruttata finché è possibile. Per sostenere la loro avversione al gas, inoltre, dovranno riuscire a ottenere investimenti e progetti adeguati in rinnovabili e altre fonti.
A complicare il quadro, si è aggiunta la recente vicenda della tassonomia energetica europea. La Commissione Europea ha infatti deciso di includere gas naturale e nucleare nella lista delle fonti considerate pulite ai fini della transizione energetica, come chiedeva il blocco guidato dalla Francia, contro la Germania, ed è ormai improbabile che si riesca a ottenere una revisione della decisione. Per quanto la scelta dipenda da equilibri europei troppo ampi per attribuirli a una singola forza politica o a un singolo Paese, è chiaro che sul piano politico la cosa rappresenta una sconfitta per Berlino, e sul piano mediatico rischia di tradursi in una sconfitta dei Verdi, i quali vorrebbero che la Germania usasse la sua influenza in UE per scoraggiare l’uso del nucleare.
Ai Verdi, tra l’altro, fanno capo tre ministeri cruciali per la transizione: quello per l’Economia e il Clima, con Roberto Habeck, quello degli Esteri, di Annalena Baerbock, e quello dell’ambiente, di Steffi Lemke: una circostanza che può rivelarsi decisiva in chiave strategica, ma che renderà facile attribuire a loro responsabilità in caso di obiettivi mancati. A fare da contraltare, però, c’è il ministero delle Finanze, cruciale per gli investimenti e affidato a Christian Lindner, leader proprio di quei liberali che in materia climatica rappresentano per i Grüne il principale scoglio interno alla maggioranza, e che avrà un ruolo di primo piano nell’allocazione della risorse.
La transizione tedesca, quindi, pur potendo poggiare su una buona volontà politica del governo, in particolare dei Verdi e dei socialdemocratici, su un apparato industriale sviluppato e pronto alla ricerca e su un’opinione pubblica tendenzialmente favorevole, ha una serie di incognite interessanti. Tanto esterne, come dimostra il caso di Nord Stream 2 e della rivalità franco-tedesca sul nucleare, quanto interne, legate alle posizioni dei liberali e a una possibile opposizione dell’opinione pubblica verso future misure più drastiche. Habeck stesso, nell’intervista alla Zeit, ha ammesso di non farsi «illusioni sul fatto che ci sarà malcontento e forse rabbia». Secondo il ministro, infatti, la transizione creerà nuovi lavori, ma «è chiaro che alcuni scompariranno, ad esempio quelli legati agli indotti delle miniere di carbone», favorendo l’opposizione delle persone coinvolte.
Sulle politiche climatiche si giocherà, in ogni caso, non solo una parte importante del futuro della prima economia europea, ma anche un partita decisiva per i Verdi, che determinerà il bilancio sulla loro esperienza di governo. La capacità di ottenere investimenti adeguati su rinnovabili e idrogeno, così come di mettere in campo insieme agli alleati di governo politiche sociali che attenuino i cambiamenti portati nei territori dalle trasformazioni economiche, sarà decisiva affinché il partito ecologista possa considerare riuscita la sua partecipazione all’attuale maggioranza.