Il Sultano dice “Niet”Perché Erdoğan si oppone all’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato

A orientare la posizione della Turchia ci sono motivazioni economiche e geopolitiche, legate ai cambiamenti imposti dalla guerra e dalla crisi internazionale che ha fatto schizzare l’inflazione. L’occidente però ha poche carte per forzare la mano di Ankara

AP/Lapresse

Un colpo di scena così, soltanto lui poteva regalarlo. «Non abbiamo impressioni positive sul loro ingresso: Svezia e Finlandia sono un rifugio sicuro per i curdi del Pkk e dello Ypg», ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan in conferenza stampa a Istanbul lo scorso venerdì.

Una posizione dura, quasi sorprendente anche per lo stesso presidente, che in passato si era espresso favorevolmente all’allargamento dell’Alleanza Atlantica (infatti poco dopo è arrivata una parziale marcia indietro di Ibrahim Kalin, il suo principale consigliere di politica estera).

«Il motivo è chiaro: Erdoğan spera di poter mantenere fin quando potrà un ruolo super partes, che gli garantisca una posizione da interlocutore credibile sia per Mosca che per l’Occidente, da cui spera di poter ricavare il massimo possibile. Lo deve all’economia interna e alla sua credibilità politica, a un anno dalle elezioni generali che vedono un’opposizione crescente da parte soprattutto dei più giovani», sottolinea a Linkiesta Alessia Chiriatti, responsabile del programma formazione e ricercatrice per l’area Mediterraneo e Medio Oriente per l’Istituto Affari Internazionali.

Perché la Turchia dice no e cosa vuole in cambio
Per entrare nella Nato serve il parere unanime di tutti e 30 i Paesi attualmente membri: per questo sia Stoccolma che Helsinki non possono prescindere dal sì di Erdoğan. Tutti i Paesi, Italia compresa, si aspettano che prima o poi da Ankara arrivi il via libera ma sono consapevoli che sarà necessario scendere a patti.

«La Turchia è un Paese importantissimo per l’Alleanza Atlantica: entrata nel 1952 come bastione meridionale in grado di contenere l’espansionismo sovietico, il suo ruolo è poi cambiato nel corso degli anni. A ridisegnare la sua posizione è stato certamente il rapporto con il presidente russo Vladimir Putin, che ha in parte reso più freddi i rapporti con l’Occidente e gli Stati Uniti», sostiene Chiriatti.

L’espulsione di Ankara dal programma di acquisto degli aerei F35 nel 2019, avvenuta in seguito all’acquisto turco dei missili russi S-400, ne è la controprova, anche se ormai quei tempi sembrano essere passati, come dimostrano i tentativi di Erdoğan di ottenere gli F16 dagli Stati Uniti, nonostante siano meno evoluti degli F35.

La guerra in Ucraina è per questo una grande occasione per il nuovo sultano turco, che ha riacquisito una centralità e un peso politico per l’Occidente di non poco conto. «La questione interna della presenza dei curdi in Svezia sembra quasi una sorta di scusa utile a frenare, almeno per il momento, il processo di adesione e non sembra essere una ragione valida per mantenere il veto turco a lungo. All’Occidente potrebbe bastare vendere alcuni F16 o estradare alcuni esponenti del Pkk o dello Ypg ad Ankara per ottenere il sì di Erdoğan», spiega Chiriatti.

Oltre alle ragioni geopolitiche ci sono però anche motivazioni economiche che portano il nuovo sultano turco a cercare di vendere il suo sì al più alto prezzo possibile. L’inflazione della Lira turca al 61% su base annua (dati aprile 2022) rischia di far crollare una delle economie che fino a pochi anni fa era tra le più in forma del Continente.

La crisi finanziaria, legata all’inflazione della moneta nazionale, ha portato a una crescita del tasso di disoccupazione (che a marzo 2022 ha raggiunto l’11,5% e tra i giovani supera quota 21%) e a una riduzione del potere d’acquisto.

La pandemia e la guerra non hanno certamente aiutato, visto che gli Stretti dei Dardanelli hanno dovuto fare una selezione delle navi di passaggio e impedire il transito di quelle russe.

«Considerando il ruolo centrale a livello di esportazioni di Mosca, rompere con Putin non conviene a Erdoğan, almeno per il momento. Alle porte c’è il grande appuntamento elettorale del 2023: se il presidente si dovesse presentare alle urne con un’economia disastrata e isolato a livello internazionale rischierebbe di perdere credibilità agli occhi degli elettori. Un rischio che penso non voglia proprio assumere», sottolinea Chiaratti.

Un ulteriore stallo economico per un Paese che ha già dovuto stoppare gli investimenti sia dei suoi numerosi partner dall’estero, soprattutto da Giappone e Russia, sia quelli del governo in tema di infrastrutture, soprattutto abitative, sarebbe una pietra tombale anche per le sue ambizioni politiche.

Perché i Paesi occidentali non possono forzare la mano
Nonostante la situazione difficile dell’economia di Ankara, gli Stati Uniti e, soprattutto, l’Unione europea non possono tirare però più di tanto la giacchetta a Erdoğan, a cui devono la gestione dei migranti nell’area mediorientale sin dal 2015 (un servizio reso alla modica cifra di 6 miliardi di euro).

«Non dobbiamo dimenticare poi che la Turchia è il secondo Stato della Nato per presenza militare e ha finora rispettato le richieste dell’Alleanza atlantica, aiutando l’Ucraina e condannando l’aggressione russa. Per questo pare probabile che alla fine si trovi un accordo: una nuova freddezza tra Europa e Turchia non converrebbe a nessuno e la presenza della Svezia darebbe alla Nato una spinta ulteriore in termini militari e logistici senza per questo pregiudicare il ruolo di mediatore della Turchia. Alla fine, conviene a tutti, considerando che la guerra in Ucraina sembra destinata a durare a lungo», sostiene Chiriatti.

Un discorso diverso vale invece per gli Stati Uniti, freddi sia con Donald Trump, che ha preferito stringere rapporti con le petromonarchie mediorientali invece che rinsaldare lo storico legame con Ankara, sia ora con Joe Biden alla presidenza.

Il rapporto tra le parti sembra essersi irrigidito: l’incontro del prossimo 18 maggio tra il segretario di Stato Anthony Blinken e il ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu a Washington dirà qualcosa di come stanno le relazioni bilaterali.

Quel che è certo è che finora gli Stati Uniti non sembrano aver ripreso con la Turchia quel rapporto mutato bruscamente nel 2016, quando ci fu il fallito golpe ai danni di Erdoğan e Washington non estradò Fetullah Gülen, il predicatore che vive in Pennsylvania e che è considerato la mente del tentato colpo di Stato.

«Subito dopo, infatti, Washington ha preferito agevolare i rapporti con i vicini più difficili di Ankara come la Grecia, citata non a caso dal presidente turco come esempio da non seguire nel processo di adesione alla Nato. Dopo un iniziale riavvicinamento nel 2020, con il cambio di presidenza, la guerra ha nuovamente rimescolato le carte, allontanando Washington ed Ankara», sottolinea Chiriatti.

E adesso verrà il difficile per Erdoğan: giocare la sua partita e mantenersi arbitro tra i contendenti. Un’impresa che rischia di non riuscirgli.

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