Forze corazzateLa guerra in Ucraina segnerà la fine dei carri armati?

I tank uniscono potenza di fuoco a mobilità e resistenza, oggi sono spesso superati da armi più agili e tecnologiche ma sempre meno adeguate a conflitti ad alta intensità

AP/Lapresse

Combattere una guerra è costoso e consuma una quantità oscena di risorse economiche e materiali bellici. Per questo, negli ultimi 150 anni, la maggior parte degli aggressori ha sempre scommesso sull’abilità delle proprie forze armate di vincere in tempi brevissimi e, se ciò non fosse possibile, evitando un contatto diretto fra le proprie truppe e quelle dell’avversario.

Per molto tempo si è tentato di minimizzare la lunghezza dello scontro pianificando una massiccia offensiva combinata che punta a sopraffare le difese nemiche con una battaglia di mobilità, colpendo i punti deboli dell’impianto avversario e distruggendone le capacità difensive prima che possa reagire.

Il carro armato unisce potenza di fuoco a mobilità e resistenza, e per questo è stato per decenni al centro di questo approccio alla guerra. Dagli anni ‘90 in poi si è iniziato a porre al centro della dottrina militare l’eliminazione dei punti nevralgici del nemico, ma investe pesantemente sulla componente aerea, missilistica, elettronica e cyber. Se uno scontro prolungato è inevitabile, allora la via maestra consiste nel minimizzare gli scontri diretti – da qui anche l’espressione “guerra indiretta” – e cercare soluzioni operative principalmente in nuove tecnologie, come fu fatto per piegare Belgrado senza schierare “stivali sul terreno”.

Si tratta qui di modelli ideali che non esistono nella realtà. Nei fatti, le guerre contemporanee si muovono su uno spettro fra questi due estremi e utilizzano in ogni caso tutti gli strumenti bellici a disposizione presenti in un arsenale. È però oggettivo che per motivi politici, culturali, economici, gli Stati Uniti e i Paesi Nato abbiano privilegiato negli ultimi anni la supremazia tecnologica per prevalere negli scontri armati.

Perché questo cambiamento? Di questi tempi non è particolarmente di moda citare autori russi; il profondo odio del presidente russo per Lenin giustifica però chiamare in causa il leader rivoluzionario.

Scrivendo nel 1913, Lenin aveva intuito che la maniera con cui un conflitto viene combattuto dipende direttamente dal sistema economico che ne puntella la produzione di armamenti. L’esperienza degli interventi in Medio Oriente e Africa e l’abolizione della leva, oltre che al declino demografico di tutto l’emisfero nord, hanno dato una giustificazione militare convincente affinché anche nel settore della difesa ci si muovesse verso i nuovi modelli aziendali affermati negli ultimi decenni. La capacità industriale ha ceduto il passo alla proprietà intellettuale e i sistemi d’arma sono diventati sempre più complessi e tecnologicamente intensivi.

Anche per questo, credo, molti opinionisti analizzano con soddisfazione gli eventi in Ucraina: l’offensiva lampo sferrata dai russi si è rivelata un immenso disastro e sembra ridimensionare l’importanza di uno dei sistemi d’arma, il carro armato, su cui la Russia godeva fino ad oggi un’ovvia superiorità numerica rispetto alla Nato. Anche chi non ha mai creduto che i balzi in avanti tecnologici paventati dalle forze armate russe corrispondessero alla realtà ha sempre presupposto che le capacità “novecentesche” dell’esercito di leva russo rappresentino comunque una soluzione di ripiego efficace.

L’ecatombe di T-72 e T-80 russi in Ucraina provoca però non pochi dubbi a riguardo. Nel giro di quattro mesi i russi hanno perso 786 carri da combattimento, tre volte il numero di panzer a disposizione dell’esercito tedesco. La proliferazione di droni e sistemi missilistici da spalla (Stinger e Javelin) sembrano sancire la fine della guerra corazzata.

Con sistemi relativamente poco costosi, ma ad alta tecnologia, i difensori hanno potuto fermare una macchina da guerra dal sapore sovietico. Con un sistema ispirato a Uber, le posizioni avanzate possono indicare all’artiglieria le posizioni da bombardare. La tentazione è decretare una vittoria della Silicon Valley contro la Fabbrica di Vagoni degli Urali (i produttori del carro T-72).

Sarebbe però un errore abbandonarsi all’arroganza tecnologica. Le perdite corazzate russe sono spesso state causate più da errori tattici che da una inevitabile supremazia tecnologica. Oltre che alle colonne createsi nei primi giorni, vulnerabili a imboscate e droni, i russi hanno spesso omesso di affiancare ai propri carri formazioni di fanteria adeguate per spianarne il percorso e proteggerli da sistemi anticarro.

In più, proprio le richieste di carri avanzate da Kiev in questi giorni sottolineano i contesti in cui le forze corazzate risultano imprescindibili: terreni aperti, come le steppe del Donbass, in cui sono fondamentali mobilità e la capacità di penetrare la corazza di veicoli nemici.

È impensabile poter montare una controffensiva che sfrutti eventuali punti deboli nella linea nemica senza potersi affidare a veicoli che, pur non essendo universalmente utili, sono comunque sufficientemente validi per concentrare sufficiente potenza di fuoco e manovrare oltre alle posizioni nemiche. Già dopo le pesanti perdite di carri israeliani durante la guerra dello Yom Kippur si è parlato del tramonto del carro armato. Quarant’anni dopo, complici numerosi sistemi di contromisure e survivability, le forze corazzate hanno ancora un ruolo centrale sul campo di battaglia.

Come ha scritto nel 2019 un generale dell’esercito australiano, «i carri armati sono come gli abiti da sera. Non servono molto spesso, ma quando capita, sono insostituibili». La situazione in cui ci troviamo, per rimanere nella metafora, è una in cui abbiamo deciso di svendere tutti i nostri abiti e comprare solamente tute Nike.

Concentrandoci su sistemi ad alto contenuto tecnologico abbiamo lasciato che la capacità di combattere anche conflitti di media durata ad alta intensità si degradasse. Il sistema di appalti dell’industria della Difesa e l’enfasi sull’avanzamento tecnologico ha limitato radicalmente la velocità e la scala con la quale è possibile mobilitare l’industria.

Sempre in Germania, fra il 2017 e il 2023 era prevista la produzione di 104 Leopard 2A7V per la Bundeswehr. Dal 24 febbraio a oggi, l’Ucraina ha avuto 196 perdite verificate, con il numero reale probabilmente maggiore.

Ovviamente la produzione ridotta è dovuta alla decennale mancanza di domanda, ma è lecito domandarsi se, in generale, l’approccio industriale e tecnologico che ha enfatizzato prodotti ad alta tecnologia rispetto a sistemi relativamente più semplici sia adeguato a una guerra ad alta intensità. Concertare operazioni che prevedono un massiccio utilizzo di forze di terra alla fine si riduce alla capacità di saper gestire grandi processi industriali e organizzare la produzione di centinaia di mezzi blindati standardizzati e affidabili pur essendo tecnologicamente avanzati.

Sono prerogative molti diverse rispetto a investire pesantemente su raffinati sistemi aerei multiruolo o kit individuali ad alta tecnologia per la fanteria, o a immaginarsi soluzioni high-tech per garantire la supremazia aerea evitando di mettere in pericolo i propri piloti.

La tecnologia ha un ruolo centrale in entrambi i casi ma, calcando la mano, da una prospettiva produttiva la differenza è la stessa che esiste fra una casa automobilistica e una big tech.

La guerra di manovra richiede prima di tutto sistemi affidabili e resilienti, la guerra indiretta precisione e perfezione tecnica. Aver pensato per decenni che lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma fosse come comprare un nuovo iPhone, e che bastasse commissionare veicoli sempre più complessi per superare la guerra corazzata ci pone oggi di fronte a un’imbarazzante incapacità di rifornire i nostri alleati. E un sistema economico-industriale completamente impreparato a combattere un tipo di guerra che è tutto fuorché passata.

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