Il ritorno sulla scena pubblica di Angela Merkel, che martedì sera è stata intervistata al Berliner Ensemble Theater da Alexander Osang dello Spiegel, ha rappresentato l’inizio di una nuova fase di quel processo a sé stessa e alla propria politica estera che la Germania ha intrapreso dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
Dallo scoppio del conflitto, infatti, Berlino è sotto accusa per i suoi legami con la Russia, che la rendono dipendente da Mosca soprattutto sul piano energetico. Legami che sono il frutto della Ostpolitik tedesca, basata, fin dalla sua nascita negli anni Settanta, sulla fede nel principio del «Wandel durch Handel», cioè la convinzione che non solo il commercio avrebbe reso impossibile la nascita di un conflitto militare, ma che la crescita degli scambi economici avrebbe avviato anche in Russia un graduale processo di riforma della società.
Ora che l’invasione dell’Ucraina ha fatto fallire questo progetto, in Germania è iniziato un bilancio che coinvolge politica, società e media, e che vede sotto accusa soprattutto due figure: Gerhard Schröder, ex Cancelliere molto legato a Putin che ora lavora per Gazprom, e Angela Merkel, il cui governo ha intensificato i rapporti con la Russia – come dimostra il progetto Nord Stream 2, poi bloccato dopo l’invasione dal suo successore Olaf Scholz.
Nella sua prima apparizione pubblica da molto tempo, però, Merkel è passata al contrattacco. L’ex Cancelliera, infatti, ha rifiutato con forza ogni responsabilità per l’attuale situazione in Ucraina. «Non mi scuserò», ha detto chiaramente, affermando come lo scenario odierno non vada letto come un fallimento dei suoi sforzi: «Ho cercato di lavorare nella direzione di prevenire danni. E se la diplomazia non ha successo, non significa che sia stata sbagliata. Quindi non vedo perché dovrei dire che è stata un errore».
Al di là dei toni di buonsenso sulla diplomazia, l’impressione, però, è che il ritorno di Angela Merkel abbia avuto soprattutto la funzione di riabilitare la sua figura, impedendo che la guerra in Ucraina ne offuschi l’eredità nell’immaginario collettivo tedesco. Diversi passaggi, infatti, appaiono quantomeno strumentali con la consapevolezza di oggi, oltre che contraddittori tra loro. Due aspetti, in particolare, rendono questa dinamica particolarmente evidente, a causa delle contraddizioni tra l’analisi ex-post fatta da Merkel e il suo operato quando era al governo.
In primo luogo, c’è il modo in cui l’ex Cancelliera ha affermato di considerare Vladimir Putin. Nel corso dell’intervista, Merkel ha difeso il suo lavoro diplomatico e le scelte fatte dal suo governo, rigettando ogni accusa di aver favorito il potere ricattatorio di cui oggi Putin gode sul gas. Ma al tempo stesso si è presentata come molto disincantata sul leader del Cremlino. In un passaggio dell’intervista ha detto chiaramente di aver capito da subito che uno degli intenti di Putin era contrapporsi alle democrazie occidentali, indebolendole. Inoltre, ha sostenuto di non essere mai stata davvero convinta che i rapporti economici con Mosca avrebbero cambiato il comportamento di Putin.
Affermazioni non certo di poco conto, che possono far sorgere la domanda sul perché, nonostante questa forte consapevolezza, da Cancelliera ha aumentato la dipendenza dal gas russo. In altri passaggi, per giunta, Merkel ha descritto Putin come un uomo che «comprende solo il linguaggio della forza», un’esternazione che indebolisce (quantomeno) la sua difesa del lavoro diplomatico svolto.
In seconda battuta, il modo in cui è stata presentata la questione ucraina è sembrata per molti versi una mera difesa d’ufficio, senza una vera e propria voglia di dare vita a un’analisi degli eventi. In merito al suo rifiuto di favorire un avvicinamento di Kiev alla Nato, Merkel ha affermato ad esempio che Putin avrebbe attaccato subito l’Ucraina se questa fosse entrata nella Nato, di fatto anticipando la guerra odierna.
Una tesi inattaccabile, ma solo perché non verificabile: alla prova dei fatti, Putin ha invaso l’Ucraina senza che questa entrasse nell’Alleanza Atlantica e in un momento in cui l’ingresso, anzi, non era più davvero in discussione. Si può ipotizzare, in maniera altrettanto non verificabile ma legittima, che un ingresso nella Nato avrebbe reso enormemente più rischioso per la Russia ogni atto ostile.
L’impressione, dunque, è che sull’Ucraina Merkel, più che tentare di analizzare le responsabilità oggettive, provi soprattutto a difendere quanto fatto dal suo governo. Talvolta anche tralasciando volutamente alcuni aspetti, come quando ha evidenziato il fatto che all’epoca in cui si discuteva di un suo avvicinamento alla Nato, l’Ucraina non fosse una democrazia compiuta: un’argomentazione che appare questionabile se consideriamo che alcuni Paesi dell’alleanza hanno democrazie altrettanto discutibili (si pensi all’Ungheria, che è anche nell’Unione europea).
Tuttavia l’autodifesa di Angela Merkel, per quanto strumentale e orientata prevalentemente alla salvaguardia della propria figura nella memoria tedesca, rivela un aspetto non sottovalutabile del dibattito tedesco sull’eredità della Ostpolitik, e cioè l’impossibilità di considerare i rapporti tra Mosca e Berlino come una storia costituita da un blocco unico, nel cui atto iniziale era già compresa, deterministicamente, l’invasione dell’Ucraina.
Se, in altri termini, non è possibile assolvere le scelte tedesche con la facilità con cui lo fa l’ex Cancelliera, condannare ogni aspetto di quelle scelte con la consapevolezza di oggi può essere altrettanto fuorviante.
Questo non soltanto perché il principio del «Wandel durch Handel» nasce, con Willy Brandt, in tutt’altra epoca – e con tutt’altra Russia – rispetto a oggi, ma soprattutto perché, come sempre nella storia, il percorso è costituito da una miriade di tappe intermedie, scelte personali, casualità ed eventi di cui, nel momento in cui si verificavano, era difficile o impossibile intuirne l’epilogo.
Consapevole di ciò, l’ingresso di Merkel nel dibattito in corso, che rompe un silenzio che andava avanti dalla cessazione del suo mandato di governo, ha soprattutto la funzione di evitare che l’eredità della Cancelleria finisse sotto condanna a causa del clima attuale. Se da una parte risponde a un comprensibile bisogno di difesa, la scelta di tornare a esprimersi pubblicamente ha avuto anche la funzione di aggiungere dei chiaroscuri a cinquant’anni di politica estera tedesca che oggi rischiano di essere letti senza riconoscerne differenze, fasi e accenti.
Anche grazie a quest’operazione, il dibattito sul bilancio della Ostpolitik si arricchirà di considerazioni e punti d’osservazione. Che questo, però, serva davvero a sollevarla da ogni responsabilità nei confronti di Mosca, appare più incerto.