Questo è il periodo dell’anno in cui si esce di più la sera, in città. Manca infatti pochissimo ad agosto; il che, nella nazione fondata sulla cottura al dente della pasta e sulla chiusura di tutto ad agosto, significa che manca poco al momento in cui molte persone partono per qualche meta di villeggiatura. Occorre quindi vedersi, salutarsi, mica partirai senza prima una birra.
No, non sono qui a chiedere retoricamente che bisogno abbiamo di vedere prima delle partenze – cioè: prima di agosto e prima di Natale – gente che stiamo serenamente senza vedere il resto dell’anno. Sono qui a notare una costante di queste serate: a un certo punto, c’è sempre una donna che deve andare via prima, nel gruppo di amici.
È una donna piacente o no, trentenne o quarantenne o cinquantenne, con un lavoro o che vive di rendita, interessata ai segni zodiacali o alla scissione dell’atomo, che ha studiato a Harvard o a Massa Lubrense, che fino a quel momento ha parlato male del sindaco o bene dell’ultimo libro di Carofiglio. Sono donne che non hanno niente in comune l’una con l’altra, tranne una caratteristica.
Sono donne con un figlio. Un figlio sufficientemente grande da andare in vacanza da solo. E il figlio il giorno dopo parte, per questa benedetta vacanza senza la mamma. Per questa vacanza con la morosa, o con gli amici, o col padre da cui la madre è separata.
E la madre deve andare via prima, sbuffando o comunicando ansia, malvolentieri o col compiacimento di chi si sente indispensabile, perché «domattina mio figlio parte e devo fargli la valigia».
Il figlio è declinato al maschile perché tutte le donne che ho visto in queste sere d’estate avevano figli maschi, ma sono abbastanza certa che sia uguale per le femmine e che non possiamo assegnare l’esclusiva di quel piscialettismo che è poter andare in vacanza da soli ma non potersi fare la valigia da soli al patriarcato e ai suoi esponenti: temo che la valigia da mammà se la facciano fare anche le quindicenni, non solo i quindicenni.
Temo sia un problema diffuso, e se non mi capitasse una madre con mansioni di guardarobiera a sera lo saprei comunque avendo installato sul telefono TikTok. Quello di TikTok è il primo algoritmo intelligente che mi accada di vedere. Non so come faccia a conoscermi – non gli ho dato elementi, non ho seguito nessuno, non ho messo cuoricini – ma fin dal primo minuto mi ha proposto quasi solo video ipnotici. Molti dei quali di Paolo Crepet. Il ventunesimo secolo è quel posto nel quale ti guardi intorno e dici: ma io perché ho passato gli anni Novanta a sghignazzare ogni volta che vedevo Crepet ospite di Vespa, Crepet è un’oasi di ragionevolezza, Crepet è il mio candidato alla presidenza della Repubblica.
«Ci sono dei genitori che fanno lo zainetto ai figli. Un papà, oppure una mamma, perché pari opportunità nell’idiozia. Pensa te nascere con due genitori così, che ti dimostrano tutti i giorni che sei un perfetto idiota, totalmente idiota, talmente idiota che non sai fare neanche lo zainetto. Cosa sarà di te? Il nulla. Pensa: i tuoi sponsor sono i primi a dirti che non sai far niente. Pensa che forza che gli dai, che coraggio che gli dai. E voi pensate che questi ragazzini diventino che cosa, dei mangiatori di orizzonti? Ma va’ là».
Insomma dice Crepet che non sono loro a essere piscialetto, siamo noi che li rendiamo tali. Noi, la peggior generazione di tutti i tempi, che, non bisognosa di procurarsi una carriera tanto i genitori ci hanno intestato appartamenti, abbiamo deciso che avremmo inscenato la collettiva finzione che essere genitori fosse un ruolo impegnativo, un compito a tempo pieno, una mansione usurante. Che i nostri figli senza di noi non fossero in grado di fare i compiti, figuriamoci la valigia.
In questo temo che ci abbia condizionati il cinema, che negli anni Ottanta usava il senso di colpa del genitore in carriera come espediente narrativo preferito per umanizzare il personaggio. In “Doppio taglio” (1985), il bambino che deve fare una ricerca per la sua classe delle elementari pretende la collaborazione della madre, Glenn Close, che la mattina dopo deve difendere Jeff Bridges dall’accusa di aver ammazzato la moglie. La madre lo liquida, lui recrimina, lei si sente in colpa e lo insegue. Una vera madre del 1985 gli avrebbe detto: non rompere i coglioni, un’udienza per omicidio è più importante di un compito delle elementari. Non avrebbe neanche dovuto rimarcare che le gerarchie esistono: negli anni Ottanta lo davamo per scontato.
Una ragazzina cresciuta vedendo Glenn Close (e mille altri madri del genere cinematografico sensodicolpista) si sarà convinta che quello fosse il vero ruolo d’una penalista: dar corda ai compiti dei figli. Poi, certo, era suo compito crescere e distinguere tra realtà ed espedienti narrativi, ma non siamo una generazione sveglissima: dalla ragazzina alla quale facciamo la valigia ci facciamo spiegare l’identità di genere, senza mai dire alla prole «ma smettila con queste puttanate» ma anzi ripetendo tutti seri ai nostri coetanei che nostra figlia è queer anzi è Batman anzi è un genio incompreso e comunque ha deciso di cambiarsi nome, lieti di essere al servizio suo e dei suoi capricci vita natural durante (o almeno finché non finiranno i soldi dei nonni).
Guai all’insegnante che alla nostra piccina desse un brutto voto o anche solo osasse dirle di non andare a scuola in bikini: il bikini glielo abbiamo comprato noi, che certo non la contraddiciamo se ella ci dice che le pare una buona idea andare in classe vestita da spiaggia; noi che della prole siamo ancelle e guardarobiere e mai mai mai educatrici. Mi chiedo quanto ci metteranno, le quindicenni d’oggi, a cominciare a vestirsi da suora: se nessuno ti vieta i jeans strappati sul culo, che gusto c’è a metterteli?
Una vita da guardarobiera e altre mansioni al servizio d’una prole alle cui ribellioni ci guardiamo bene dal contrapporci, precipitandoci anzi ad assecondarle: a che ora è la rivoluzione, te lo chiedo così posso venire a prenderti quand’hai finito. Con queste premesse, qualcuno – non certo io – finirà per chiedersi se sia poi così inspiegabile che una guardi la figlia di un anno, si renda conto che tra quindici o vent’anni dovrà ancora accudirla a tempo pieno, e quel punto preferisca lasciarla morire. (Sì, certo, sto facendo apologia d’abbandono di minore e omicidio premeditato: è proprio quello lo scopo ultimo del ragionamento, si vede che ad avere i quindicenni come interlocutori vi si è sviluppata la capacità di leggere).