La caricatura più brutta fra quelle che circolano sulla Nato è quella che la rappresenta come un club di vecchi signori imperialisti, dediti a giocherellare a mikado con le testate nucleari.
Eppure, per molti anni la strategia dell’Alleanza si è basata su un autolesionismo calcolato più che sulla letalità. Questo è ad esempio il principio delle “tripwire forces”, unità multinazionali con il compito di garantire l’intervento di Europa occidentale e Stati Uniti in caso di un attacco russo contro i Paesi baltici.
Le unità di combattimento sono relativamente piccole, ma ciò che conta in questo caso non sarebbero tanto i numeri quanto i passaporti: un’offensiva russa mieterebbe vittime fra gli eserciti di tutti gli Stati membri con forze schierate in Estonia, Lettonia o Lituania. Nulla manifesta infatti risolutezza quanto la decisione di mandare i propri soldati verso una morte certa: quale politico sarebbe disposto a chiedersi se valga la pena di morire per Tallinn quando i propri soldati sono già impegnati in combattimento?
Questa forma di solidarietà forzata, con cui la Nato ha provato a dare credibilità alla deterrenza nei Paesi baltici, è stata definitivamente archiviata al vertice di Madrid di fine giugno.
A partire dall’anno prossimo l’Alleanza modellerà le proprie forze seguendo il principio che i Paesi del fianco Est (i tre Stati baltici e la Polonia) dovranno essere protetti non solo tramite la deterrenza, bensì preparandosi a poterli difendere anche in caso di una vera guerra. Si parla di una forza di risposta di 300mila soldati, sette volte più dell’attuale Nato Response Force.
I motivi di questa svolta sono molteplici e legati soprattutto alle preoccupazioni dei tre Stati al confine con la Russia.
In primo luogo, le simulazioni condotte per anticipare le possibili operazioni militari russe mostrano che in caso di guerra le capitali baltiche cadrebbero nel giro di 60 ore. Ciò significa che anche con un intervento da parte degli alleati, i tre Paesi soffrirebbero comunque un’occupazione e andrebbero liberati, una missione tutto fuorché facile negli angusti spazi operativi del Baltico.
In secondo luogo, il 24 febbraio ha rivelato quanto sia alta la soglia del dolore di Mosca. In tutti questi anni siamo partiti dal presupposto che la Russia sarebbe disposta a intraprendere un’operazione del genere solo nel caso riesca a imporre un rapido colpo di mano e evitare così una guerra con Stati Uniti e Europa. Ma in Ucraina proprio questo tipo di blitz è fallito, e l’esercito russo si trova ora impegnato in uno scontro prolungato nel quale, nonostante le difficoltà, potrebbe ancora vincere. Nel giro di quattro mesi Mosca ha perso l’equivalente di 4 anni di produzione di mezzi corazzati: ciò rende più credibili le sue minacce e dimostra quanto il Cremlino sia disposto a pagare quando lo ritiene necessario.
Da questo dato militare deriva anche un’inquietudine di natura politica. Il modello “tripwire” presuppone che la perdita di soldati tedeschi, francesi , italiano o americani nei Paesi baltici trascinerebbe Germania, Francia, Italia o Stati Uniti nel conflitto.
Ma la recalcitrante opinione pubblica europea e le tergiversazioni dei leader hanno mostrato che la coesione politica degli Stati Nato non è garantita nel lungo periodo. Basti pensare quanto l’invio delle armi a Kyjiv abbia seminato zizzania fra le forze politiche italiane riguardo, o al susseguirsi di lettere aperte scritte da intellettuali tedeschi a favore della pace a tutti i costi.
La situazione si è quindi ribaltata. Fino al 24 febbraio la Nato ha scommesso che la minaccia una guerra lunga con Europa e Stati Uniti sarebbe stato da monito per i russi; oggi la deterrenza migliore consiste nel poter respingere i russi nei primi giorni di guerra.
A tal scopo saranno necessari parecchi aggiustamenti alla struttura operativa dell’Alleanza. Le capacità di risposta attuali si basano sulla Nato Response Force, un’architettura attraverso la quale diverse unità ruotano e si addestrano per poter agire come un’unità coesa sotto il comando supremo alleato, per un totale di 40mila soldati dispiegabili in 15 giorni.
Ma la Nato Response Force non è stata finora in grado di essere più di una somma delle sue parti: può operare solo se tutti gli Stati presenti in un round di rotazione approvano l’invio delle unità, e come un castello di carte rimuovere un’unità con un preciso compito operativo fa crollare il resto della struttura.
In più, la Nato Response Force era stata pensata per spronare gli Stati partecipanti a sviluppare e coordinare le capacità militari che rappresentano la spina dorsale di una forza d’intervento: aerei da trasporto, sistemi di intelligence e ricognizione, sistemi logistici. Ma i progressi sono stati pochi, e la maggior parte degli Stati partecipanti si è negli anni limitata a fornirsi le capacità necessarie per poter guidare la Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), un’unità più piccola di 8500 soldati pronti a intervenire in 72 ore.
Ancora non è chiaro come l’Alleanza voglia gestire l’aumento repentino delle proprie unità di reazione, e la conferenza stampa di Stoltenberg a Madrid ha seminato abbastanza confusione fra giornalisti ed esperti.
L’obiettivo consiste per ora nell’essere in grado di schierare 100mila unità entro 10 giorni e 200mila in un mese. Le unità rimarrebbero nei propri Paesi d’origini ma sarebbero preassegnate a zone nei Baltici, in Polonia, Bulgaria e Romania, dove verrebbero create infrastrutture e spazi per accogliere le unità.
A causa di ciò molti hanno criticato quella che considerano un gioco di prestigio: il numero totale delle forze Nato sul campo non crescerebbe, ma alcune unità nazionali verrebbero riclassificate per raggiungere la cifra indicata da Stoltenberg.
Tuttavia, pur non trovandosi sul fianco est, queste si addestrerebbero e condurrebbero esercitazioni congiunte con l’esplicito compito di poter difendere il settore assegnatogli dal comando. Ciò potrebbe rendere le forze Nato più modulari e meglio preparare le unità esistenti senza per questo ammassarle sul fianco Est.
Il piano rimane comunque piuttosto ambizioso. Il suo successo dipenderà prima di tutto dagli investimenti degli Stati membri europei nelle proprie forze armate, e ciò richiede tempo. In più, è verosimile che resteranno alcune delle difficoltà riscontrate nella (mancanza) di interventi della Nato Response Force, amplificate su una forza di centinaia di migliaia di soldati.
Se implementata, è una soluzione flessibile che permetterebbe forse di rispondere alla domanda centrale dei prossimi anni: come ci si prepara a poter vincere una guerra con la Russia senza tornare ai costosissimi schieramenti della Guerra Fredda?