O. mi mostra lo schermo del telefono. Ormai sono allenato: lei o una delle sue due sorelle scrive, io leggo la frase gentilmente offerta da Google Translate e cerco di immaginarmi quale fosse l’originale in ucraino: una specie di telefono senza fili insomma, che abbiamo praticato per la prima volta quattro mesi fa mentre attendevamo l’ok della polizia di frontiera a farci uscire dal Paese.
Dobbiamo tornare a casa, scrive O., devo aiutare mio marito con il lavoro. Non faccio in tempo a scrivere la risposta; probabilmente è sufficiente la mia espressione che dovrebbe esprimere un concetto vicino a “sei sicura? Siete sicuri? Le condizioni sono le stesse di quando siete partiti, perché adesso dovrebbe essere meno pericoloso vivere nel vostro oblast’ rispetto a quando siete partiti? E i bambini?”.
O. si riprende il telefono e quando me lo rimette in mano leggo che i bambini sono contenti di tornare a casa, che il marito (un uomo che dopo l’iscrizione nella lista passa i suoi giorni aspettando la chiamata dell’esercito per andare a combattere nel Donbass o a Odessa o dovunque i russi stiano bombardando e attaccando) non può continuare a lavorare diciotto ore al giorno sette giorni su sette senza aiuto. So che O. vorrebbe dirmi molto altro, ad esempio che ha molta paura perché la guerra può arrivare a casa sua in qualunque momento, oppure che fino a quando le bombe non cadono per davvero nel giardino di casa è meglio provare a tenere a bada l’ansia nel proprio salotto che vivere la vita sospesa dei profughi a duemila chilometri di distanza.
«Quando sei un profugo, il mondo intero si prende cura di te, ma io non lo voglio» (…) «Voglio il mio minuscolo appartamento. Voglio il mio lavoro che non mi piace. Voglio vedere il mio capo. Voglio passare due ore al giorno in metropolitana. Voglio essere stanca. Voglio fare i compiti con i miei figli. . . . Tutte le cose che odio, è quello che voglio». Non sono parole di O.: le ha dette Inna Blahonravina, una dei – quanti? sei, sette, otto? – milioni di profughi usciti da un Paese che prima della guerra aveva una quarantina di milioni di abitanti la cui storia, identica a quella dei – quanti? sei, sette, otto? – milioni di profughi come lei è stata raccontata da Ed Caesar sul New Yorker qualche settimana fa.
Le ha dette Inna e sono certo che le direbbero anche O. e le sue sorelle. Ma non finisce lì, anzi. «Ti siamo riconoscenti per tutto quello che hai fatto per noi», scrive O., «non essere arrabbiato». Non essere arrabbiato perché torniamo a casa, vuol dire, perché proviamo a riprendere la nostra vita da dove l’abbiamo lasciata o giù di lì. Quando leggo le sue parole non posso fare a meno di sentirmi in colpa perché di sicuro in questi mesi durante i quali io e molte altre persone ci siamo occupati di questa famiglia trovandole una casa e un medico, raccogliendo soldi per pagare un affitto e la spesa per tante persone, trovando il modo di regalare giochi e quaderni, accompagnando mamme e figli e nonna e nipoti per visite specialistiche, districandoli nelle incomprensibili more della burocrazia e cento altre piccole cose, di sicuro nel fare tutto questo ci è capitato di dire «lascia fare a me, lasciate fare a noi, questa è la cosa giusta, dovete fare così e così» dimenticando più o meno consapevolmente che avevamo a che fare con persone certo in difficoltà, ma né inconsapevoli né incapaci.
Di sicuro siamo stati – involontariamente, questo ce lo riconosco – paternalisti: O. e le sue sorelle non se la sono mai presa o almeno non mi sembra che questo sia successo, ma quando è stato il momento ci hanno ricordato che le scelte per la loro vita toccavano a loro e a nessun altro: avevano bisogno di aiuto, noi glielo davamo anche quando non ce lo chiedevano espressamente ma questo non ci autorizzava a sostituirci a loro. E hanno avuto ragione. Mi chiedo se questo piccolo stralcio di vita di persone comuni non sia stato riprodotto su scala molto più grande fra governi, fra classi intellettuali, fra “gente che conta”: mi chiedo se “lasciate fare a noi” non sia stato fin troppo spesso il messaggio fatto arrivare a gente che aveva bisogno di aiuto e non di un tutore legale più o meno interessato.
Anni fa, dopo la rappresentazione di “Furore” di Steinbeck in un centro SPRAR abitato da ragazzi africani scappati da una delle cento guerre che devastano quel continente, ragazzi che avevano assistito al reading comportandosi come tutti i ventenni di questo mondo ai quali viene chiesto di adeguarsi all’etichetta dei “grandi” almeno per un paio d’ore, un’amica mi disse «sembra che ci diano fastidio perché non sono tristi, abbacchiati e remissivi, sembra che ci diano fastidio perché hanno vent’anni e vogliono vivere». È una frase alla quale ho pensato molto dopo aver tenuto in mano il telefono di O. e a cosa significa aiutare qualcuno a difendersi da un sopruso senza diventare quello che il sopruso lo esercita, sebbene di tipo diverso. È difficile, molto difficile: ma è quella la cosa giusta da fare.