«Non permetteremo che il piano di includere l’energia nucleare (russa) nelle sanzioni venga attuato, va ovviamente posto il veto. Questo è fuori questione». Continua la strategia dei veti del primo ministro ungherese Viktor Orbán, una linea più utile in politica interna che in Europa visto che finora è sempre stato costretto a fare retromarcia per non rischiare di perdere i fondi di Bruxelles.
L’ultimo esempio è recente e riguarda l’università: Orbán ha di fatto posto un controllo politico sugli atenei disponendo la presenza di figure di primo piano vicine al Governo all’interno dei consigli d’amministrazione. Il risultato è stato che Bruxelles ha bloccato i fondi Erasmus+ e anche in questo caso l’intransigenza ungherese è durata bene poco.
«Da parte nostra, non è un problema se la Commissione europea solleva la questione che i politici non possono essere membri dei consigli di amministrazione universitari… possiamo risolvere la cosa con un regolamento. Possiamo discutere anche il problema che gli attuali mandati dei consigli di amministrazione non hanno limiti temporali. Il governo ungherese è aperto sul tema» ha dichiarato di recente il ministro Tibor Navracsics a Euronews.
Ma è proprio sull’energia nucleare che per Budapest si alza la posta in gioco visto che ha in cantiere già da tempo la realizzazione, in stretta collaborazione con il Cremlino, del progetto Paks 2. Paks è una piccola cittadina a un’ora di macchina da Budapest situata sulle rive del Danubio. Lo stemma ufficiale della città è composto da una foglia di tiglio, il fiume Danubio e un simbolo atomico stilizzato che si riferisce «all’uso pacifico dell’energia nucleare».
Paks è infatti sede dell’unica centrale nucleare ungherese, composta da quattro piccoli reattori Vver 440 di costruzione sovietica con una capacità combinata di circa duemila megawatt, che hanno iniziato a funzionare negli anni Ottanta e il cui ciclo di vita dovrebbe terminare nel 2030.
In base a un accordo firmato nel 2014 con la Russia, l’Ungheria mira ad espandere l’impianto Paks, che già produce circa il quaranta percento dell’energia ungherese, con due reattori Vver fabbricati da Mosca per una capacità di milleduecento megawatt ciascuno. A occuparsi della costruzione dovrebbe essere Rosatom, la compagnia nucleare statale russa, una delle poche aziende di Stato a non essere stata colpita dalle sanzioni. Il Cremlino finanzierebbe l’impianto con un prestito da dieci miliardi che verrebbero rimborsati dai cittadini ungheresi nelle loro bollette.
Nel frattempo, però, Putin ha invaso l’Ucraina e Bruxelles – spinta da Paesi come Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia – sta pensando di estendere le sanzioni nei confronti di Mosca coinvolgendo anche il settore nucleare. La Commissione non ha ancora fatto una proposta formale, ma sono in corso colloqui per il decimo pacchetto di misure contro Putin che potrebbe arrivare proprio il 24 febbraio, a un anno dall’inizio della guerra.
Rosatom fornisce inoltre il combustibile nucleare per le centrali di vari Stati membri tra cui Finlandia, Belgio e, ovviamente, Ungheria. Ma Helsinki e Bruxelles – al contrario di Budapest – si stanno mobilitando per sostituire il combustibile proveniente da Mosca: il Belgio ha interrotto ogni contatto con l’azienda russa, mentre il Paese scandinavo ha annullato un contratto con Rosatom per una centrale nucleare che sarebbe dovuta entrare in funzione nel 2024.
La Finlandia, avendo come altri Paesi dell’Europa orientale impianti di fabbricazione sovietica, ha qualche difficoltà in più derivante dalla scarsità di combustibili alternativi compatibili con quel tipo di reattori. Anche se l’Ue ha già da qualche anno avviato un percorso in questa direzione.
Non è quindi solo l’Ungheria a dipendere da Rosatom. A differenza dei suoi colleghi europei, però, Orbán non sembra intenzionato a voler trovare soluzioni alternative. Anzi, il leader di Fidesz mira all’implementazione della partnership con Mosca costruendoci insieme nuovi impianti. Per la realizzazione del progetto Paks 2, oltre agli evidenti problemi politici, esistono però anche complicazioni logistiche.
Come racconta la BBC, molti dei componenti della nuova centrale dovrebbero essere costruiti in Russia e trasportati via terra e l’unico percorso che non preveda il passaggio per un altro Paese europeo è quello, impraticabile, che attraversa l’Ucraina. Senza contare che al trasporto del materiale si aggiungerebbe quello di migliaia di operai specializzati russi.
Il progetto è inoltre un ibrido visto che l’hardware sarebbe costruito da Mosca ma, dopo le pressioni di Bruxelles, il sistema di controllo e le turbine verrebbero fabbricate da aziende europee e statunitensi. Ed è improbabile che europei e americani lavorino in sinergia con i russi a meno di quattrocento chilometri dal confine ucraino. La realizzazione dell’impianto resta dunque un grande punto interrogativo. Orbán questo lo sa bene, ma non ha comunque perso l’occasione per fare l’ennesimo assist all’amico di Mosca.
Una strategia che, come si diceva, fino a ora non ha pagato e ha anzi contribuito a rafforzare la posizione della Commissione di fronte ai capricci ungheresi. Ma per quanto non porti a risultati, la sensazione è che all’autocrate di Budapest faccia molto comodo continuare a sfidare Bruxelles su questi temi tentando di distrarre i suoi elettori dalla politica interna.
Soprattutto ora che l’Ungheria ha conquistato due nuovi primati: prima nell’Unione europea per tasso d’inflazione (arrivato al venticinque per cento) e al primo posto tra i Paesi più corrotti del vecchio continente secondo la classifica 2022 di Transparency international. È facile immaginare che, anche stavolta, sarà «colpa dell’Europa».