Non esiste una parola italiana per il termine “escalation”, e una lettura maligna potrebbe attribuire a questo limite linguistico la sciatteria del dibattito su un possibile ampliamento del conflitto russo-ucraino. Lo abbiamo visto con l’annuncio britannico di trasferimento di proiettili anticarro con uranio impoverito all’Ucraina: pur trattandosi di munizioni convenzionali, che nulla hanno a che fare con la fissione nucleare e che sono purtroppo tossiche tanto quanto altri materiali usati nelle munizioni, la parola “uranio” ha immediatamente destato lo spettro di una guerra atomica nell’opinione pubblica. La Russia ha sfruttato l’attenzione catalizzata da queste munizioni annunciando lo schieramento di (vere) armi nucleari tattiche sul territorio bielorusso – violando, tra l’altro, l’impegno assunto nella dichiarazione congiunta di Vladimir Putin e Xi Jinping a non schierare tali ordigni fuori dai propri confini nazionali.
Una prospettiva caritatevole su come l’Europa sta discutendo di una possibile escalation in Ucraina dovrebbe considerare che le paure causate da una guerra nel nostro immediato vicinato, seppur spesso alimentate con fini ipocriti, sono tutto fuorché irrazionali.
La guerra e la politica non sono scienze esatte, non esiste un righello che definisca matematicamente la distanza che decorre fra uno scontro armato e un conflitto più ampio. Tuttavia, è giusto ricordare che ciò che viene comunicato in pubblico non corrisponde necessariamente al sentito nei ministeri e negli stati maggiori.
Salita agli estremi
È errato ad esempio pensare che non avvengano colloqui bilaterali fra Mosca e Paesi Nato, volti per l’appunto a evitare che lo scontro militare sfugga di mano. Temi come lo status della centrale nucleare di Zaporizhzhia sono soggetti a trattative multilaterali sotto l’egida dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (e i leader politici europei farebbero bene a sottolineare che con i russi «noi ci parliamo», nonostante le difficoltà di un partner in malafede).
È evidente che Mosca utilizzi in maniera piuttosto smodata le paure del pubblico occidentale per forzare la fine degli aiuti militari. La sfida è comprendere quanto – e quando – i segnali provenienti dal Cremlino siano indirizzati ai decisori politici in Occidente o si tratti semplicemente di propaganda volta a eroderne il consenso elettorale. Questo vale per le armi nucleari, ma anche per la minaccia di allargare il conflitto con mezzi convenzionali.
Questo è un problema profondamente radicato nella dialettica nucleare, e questa ambiguità è per certi versi la raison d’être di un arsenale nucleare volto alla deterrenza.
A rendere diversa la situazione in Ucraina sono due fattori: il primo è che, in una guerra “calda” e attivamente combattuta, la logica della deterrenza – ovvero dissuadere il nemico a commettere certi atti minacciando una rappresaglia massiva – cede parzialmente il passo alla logica di lotta. Già Carl von Clausewitz scriveva di questa contraddizione. Per il teorico prussiano, il conflitto militare è uno scontro politico razionale nel quale l’uso della forza viene operato solo nella misura in cui essa è vantaggiosa per le parti in causa: una guerra limitata, con regole ben precise e implicitamente concordate, è la norma.
Ma ogni scontro contiene il rischio di una “ascesa agli estremi” (Bestreben zum Äußersten), ovvero il rischio che il desiderio di distruggere l’avversario prevalga e trasformi i conflitti in una guerra totale. Clausewitz aveva già intuito che le dinamiche sociologiche che guidano la politica, e in ultima analisi potenziali escalation belliche, complicano una visione puramente razionale della guerra.
Quale escalation?
A complicare ulteriormente l’immagine è un secondo elemento, ovvero che non esiste un unico modello di escalation. Prima di tutto è necessario che le parti in causa leggano secondo gli stessi parametri le azioni reciproche, e che un gesto volto ad alzare la tensione (o diminuirla, o che viene ritenuto allo stesso livello di azioni compiute in precedenza) sia interpretato correttamente dall’avversario. Ciò che può sembrare un passo enorme per noi – come l’invio di carri armati – può sembrare trascurabile per il Cremlino, e viceversa: questo complica anche il calcolo strategico di Stati come la Russia, la cui oggettiva potenza militare e politica le permetterebbe di perseguire sia una escalation orizzontale, ovvero l’espansione della guerra ad altri domini e aree geografiche, sia verticale, cioè un intensificarsi della campagna in Ucraina.
Tenuto conto delle catastrofiche distruzioni imposte agli ucraini, sembra difficile che la Russia abbia ancora spazio di manovra per un’escalation verticale: dopo la campagna di bombardamenti contro obiettivi civili di questo inverno, probabilmente le uniche due vie percorribili per intensificare la guerra sarebbero una mobilitazione generale delle forze russe (internamente complicata da far passare), o un uso di armi nucleari che verosimilmente isolerebbe la Russia anche da Cina e India.
Mosca possiede indubbiamente ancora sufficiente spazio di manovra per allargare il conflitto orizzontalmente. La destabilizzazione della Moldavia da parte di attori pro-russi è un esempio di scuola: creando nuove crisi nel vicinato europeo, la Russia può dimostrare di poter imporre ancora parecchi costi al sostegno militare garantito dagli alleati dell’Ucraina. A questo si aggiungono poi misure come attacchi cyber contro obiettivi in Europa, e in generale qualsiasi misura che danneggi i decisori politici occidentali. Infrastrutture economiche critiche, come i gasdotti, sono considerate dalla dottrina russa come obiettivi privilegiati per “spari d’avvertimento”: siamo in grado di colpirvi dove fa male, desistete.
Escalation per cosa
Vale anche la pena capire come i russi concepiscono l’idea di escalation. È evidente che alzare il livello dello scontro non è una decisione fine a sé stessa, ma un mezzo per perseguire un fine strategico. Nella dottrina russa, questo fine si può più o meno riassumere con l’idea di portare il conflitto a dimensioni vantaggiose per la Russia e di contenere la guerra in un perimetro gestibile per Mosca. Questa precisazione è importante perché porta a riflettere su quella che sarebbe una situazione ideale per la Russia, una nella quale può pienamente sfruttare i propri vantaggi competitivi rispetto a Ucraina e Nato.
Verosimilmente, lo scenario più desiderabile per il Cremlino è uno nel quale l’Occidente è diviso, il sostegno per l’Ucraina eroso, l’Europa in preda a crisi domestiche che le impediscono di tenere la linea contro le prevaricazioni russe. Per raggiungerlo, Mosca si deve muovere in uno spazio di ambiguità e seminare tensioni nel campo avverso senza compiere azioni eclatanti che lo ricompattino. Un uso del proprio arsenale nucleare porterebbe pochi vantaggi nella sfera militare, che rimane quella nel quale la Russia mantiene la propria maggior forza potenziale. L’uso di armi nucleari intaccherebbe ulteriormente i punti deboli di Mosca: la mancanza di stretti alleati in giro per il mondo, l’isolamento economico e la mancanza di credibilità diplomatica.
Schierare armi nucleari in Bielorussia, invece, spunta diverse caselle contemporaneamente: completa il dominio su il proprio vassallo europeo, addita come motivazione la presenza decennale dell’arsenale nucleare americano sul continente. Così facendo, Mosca rinfocola un dibattito controverso in Europa, che potrebbe essere colto dalle forze populiste e che è sicuramente più efficace di un uso scriteriato di armi nucleari.