La Great Resignation all’italiana ha già i suoi pentiti. L’aumento delle dimissioni dal lavoro – che in Italia c’è stato ma non nelle dimensioni paragonabili a quelle americane – nel nostro Paese è già passato alla fase due: nell’ultimo anno quasi la metà dei lavoratori italiani ha cambiato lavoro (quarantasei per cento) o sta facendo colloqui (cinquantacinque per cento), percentuale che sale al settantasette per cento tra gli under 27, ma il quarantuno per cento vorrebbe già tornare indietro. È quello che negli Stati Uniti chiamano “Great Regret”, che in Italia riguarda soprattutto gli uomini e le persone con più di cinquanta anni di età.
I dati si trovano nella ricerca dell’Osservatorio Hr Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, secondo cui tra i settori più colpiti dalle dimissioni volontarie ci sono il manifatturiero e i servizi, mentre ben il trenta per cento dei lavoratori del settore finance ha intenzione di cambiare lavoro nel medio periodo. Tra lo scongelamento e il rimbalzo economico post Covid, la domanda di lavoro è aumentata e in molti sono passati da un’azienda all’altra per migliorare le proprie condizioni lavorative dal punto di vista economico e di carriera.
Ma non tutti quelli che hanno cambiato lavoro hanno trovato quello che cercavano: il quarantuno per cento si è pentito della scelta fatta. Le motivazioni principali sono legate alla difficoltà di ricollocarsi dopo aver abbandonato il lavoro senza un’altra offerta al momento delle dimissioni e una rivalutazione, in positivo, del vecchio lavoro una volta usciti.
Secondo la ricerca, l’otto per cento dei lavoratori italiani ha cambiato volontariamente lavoro negli ultimi dodici mesi per aver ricevuto un’offerta, il tre per cento lo ha fatto senza un’offerta al momento delle dimissioni. Il dodici per cento, invece, ha intenzione di farlo da qui a sei mesi, il ventitré per cento ha intenzione di farlo nel medio periodo (da qui 12-18 mesi).
La prima motivazione per cui ci si licenzia è cercare migliori condizioni economiche e benefit. Al secondo posto, in crescita rispetto allo scorso anno, la flessibilità nell’organizzare il proprio orario lavorativo. Al terzo, motivazioni legate alla propria salute fisica o mentale. Tra le principali motivazioni all’abbandono del lavoro troviamo le relazioni interpersonali con capi, colleghi e collaboratori.
In generale, emerge come la conciliazione vita-lavoro sia uno degli elementi su cui è più forte l’insoddisfazione dei lavoratori. Altri aspetti segnalati come cause di abbandono del lavoro sono la possibilità di decidere dove lavorare e anche la volontà di inseguire i propri interessi personali: si cambia perché il contenuto del lavoro non soddisfa e-o perché si desidera fare delle passioni private il proprio lavoro.
La ricerca ha fatto luce anche sul quiet quitting italiano, il fenomeno che riguarda quelli che hanno ridimensionato lo spazio del lavoro nella propria vita limitandosi a fare lo stretto necessario, dando priorità ad altro. Una specie di licenziamenti silenziosi che sono anche sintomo di scarso coinvolgimento nel proprio lavoro.
Secondo i dati del Politecnico, in Italia ci sono 2,3 milioni (dodici per cento) di quiet quitter, che si limitano a fare il minimo indispensabile senza essere coinvolti emotivamente nelle attività lavorative, perché non si sentono valorizzati nel proprio talento e hanno deciso così di «spegnersi», utilizzando al minimo le proprie energie sul lavoro.
All’estremo opposto, c’è un sei per cento (circa 1,1 milioni di lavoratori) di job creeper, che non riesce a smettere di lavorare, anche nei momenti in cui ci si dovrebbe dedicare alla vita privata.
Fenomeni diversi, che sono sintomo di un malessere diffuso, spiegano dall’Osservatorio. D’altronde, oggi solo il sette per cento (circa 1,3 milioni lavoratori) dei lavoratori dichiara di essere «felice». E solo l’undici per cento sta bene su tutte e tre le dimensioni del benessere lavorativo: psicologica, relazionale e fisica. L’aspetto più critico che emerge dalla ricerca è quello psicologico: il quarantadue per cento dei lavoratori ha avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere psicologico o relazionale.
«La pandemia ha fatto crescere in molti un senso di precarietà e individualismo che porta a non vedere più il lavoro come unica o principale priorità, ma a rivendicare il diritto di avere tempo e spazio per poter vivere tutte le altre sfaccettature della vita», spiega Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Hr Innovation Practice. «Le evidenze della ricerca suggeriscono come sia necessario partire dall’ascolto e dalla presa d’atto che alla base della crisi attuale ci sia innanzitutto una sempre più pressante ricerca da parte delle persone di equilibrio e felicità attraverso il lavoro. Un totale cambiamento di mentalità che sfida la cultura tradizionale».
L’incapacità di gestire l’invasione del lavoro nella vita privata è per molti fonte di insoddisfazione, malessere, desiderio di discontinuità. E, come reazione, sono emersi due differenti approcci da parte delle persone. Quella che i ricercatori chiamano Work-Life Integration è la situazione di chi trova nel lavoro una componente significativa della soddisfazione personale ed è portato a gestire in maniera integrata i due aspetti (quarantatré per cento dei lavoratori). La Work-Life Separation è invece l’approccio di chi trova soddisfazione personale prevalentemente fuori dal lavoro ed è portato a tenere separata la vita lavorativa da quella privata (cinquantasette per cento dei lavoratori).
L’integrazione vita-lavoro non correttamente gestita e incanalata, però, porta al Job Creeping. I job creeper, il 6% dei lavoratori, ricercano autonomia e flessibilità nel lavoro, il loro livello di coinvolgimento è più alto della media, ma i ritmi e i carichi di lavoro sovrastano la sfera privata. E questo è un problema. Sul fronte opposto, la separazione vita-lavoro non gestita bene porta, invece, al quiet quitting. I quiet quitter in moltissimi casi rinunciano anche a cercare di cambiare lavoro, adagiandosi di fatto nella loro pur insoddisfacente situazione professionale. E anche questo è un problema.