Lo spettacolo non è iniziato in modo memorabile, a dire il vero, malgrado il set allestito in stile consultazioni per la crisi di governo nella Sala della Regina, venticinque anni fa teatro della mitica Bicamerale dalemiana (di cattivo auspicio?), e le belle parole di questo e di quello che già segnalano discordia. Non c’è stata particolare solennità nel primo giro della giostra sulle riforme costituzionali allestita in tempi record da Giorgia Meloni.
Il dialogo tra maggioranza e opposizioni dunque non poteva non risentire di questo clima brumoso, delle diffidenze reciproche, della stessa assenza di indicazioni concrete al di là dello slogan meloniano, giuridicamente inverecondo, secondo il quale bisogna eleggere direttamente «qualcuno».
Alla fine la premier ha annunciato una proposta del governo e ha rimarcato il fatto che le opposizioni hanno detto cose diverse tra loro, però ha dovuto prendere atto che il presidenzialismo è già morto e sotterrato mentre sopravvive l’elezione del premier e il cancelleriato alla tedesca proposto dal Partito democratico.
In ogni caso, la vicenda appare come un gioco sulla scacchiera della politica, con la premier che ha intenzione di andare avanti per risolvere il problema dell’instabilità (ma allora perché è sicura di andare avanti cinque anni?).
Era la prima volta che le due donne al comando, si fa per dire, si sono guardate negli occhi. Molta cortesia, feeling zero: si sono date del “lei”, naturalmente. La segretaria del Partito democratico, di rosso vestita, è stata più abile di un rude Giuseppe Conte buttando altra legna sul fuoco, la legge elettorale, il no alla autonomia differenziata, un modo per non semplificare la situazione.
Il contrario dei desideri di Giorgia, che ha molta fretta: sul perché ha la risposta giusta uno che se ne intende, Pierferdinando Casini: «Meloni getta la palla in tribuna, introducendo un’arma di distrazione di massa rispetto alle problematiche del governo, che è in affanno». Scetticismo, a dire poco.
Neppure il Terzo Polo che pure sostiene il premierato nella versione “sindaco d’Italia” è sembrato ieri particolarmente eccitato dopo il colloquio con Meloni. Nebbia anche sullo strumento per lavorare. E tuttavia c’è moltissima agitazione ma siccome la questione andrà avanti – se andrà avanti – per almeno un paio d’anni sarà bene darsi tutti una calmata.
In questo senso viene il dubbio che Giorgia Meloni la stia mettendo giù troppo dura, giacché iniziare una trattativa dicendo se siete d’accordo bene sennò facciamo da soli non sembra esattamente invitare alla collaborazione, ma piuttosto eccitare aventinismi vecchi e nuovi che in democrazia non hanno senso politico.
Calma e gesso, dunque. Probabilmente non siamo davanti a un bivio epocale. Non è in gioco il sistema democratico in quanto tale, ma il suo funzionamento e la sua qualità.
Il punto è che non si può pensare di spaccare l’Italia in due magari mettendo in scena una pantomima della Resistenza contro i repubblichini di Salò, quindi bisognerebbe spegnere sul nascere gli opposti estremismi di chi vuole prendere l’intero piatto e di chi dice di no a tutto.
Se questo fosse lo spartito che le forze politiche immaginano di suonare ci sarebbe da mettersi paura all’idea di un referendum, a quel punto fatalmente sul governo, su Meloni, su Schlein, sul fascismo, l’antifascismo e chi più ne ha più ne metta, in un carnevale di demagogia e in un clima da big match da ultima di campionato. Il Paese ha bisogno di questo? Certamente no. Forse ha bisogno di cose tutto sommato più semplici di una riforma epocale. Ma l’onore di una iniziativa gestita senza surrettizie tensioni plebiscitarie e populiste spetta innanzi tutto ai suoi proponenti, a Giorgia Meloni, che qui deve dimostrare di essere una leader di governo e non una segretaria di un partito mosso dal risentimento e dalla rivalsa.