Grande balzo all’indietroMeloni vuole uscire dalla Via della Seta ma non sa ancora come

La gestione del Memorandum of Understanding siglato dal governo Conte è un test probante per la politica estera dell’esecutivo: Roma vorrebbe sganciarsi dall’accordo firmato da Di Maio nel 2019, Pechino potrebbe chiedere contropartite rilevanti per attutire il colpo a livello d’immagine

AP/Lapresse

Villa Madama, 23 marzo 2019. Luigi Di Maio, ministro per lo Sviluppo economico del governo gialloverde, e He Lifeng, presidente della Commissione nazionale per lo sviluppo e riforme della Repubblica Popolare Cinese, firmano il Memorandum of Understanding che segna l’ingresso dell’Italia nella Belt and Road Initiative. O, più romanticamente, Nuova Via della Seta. Lì vicino, sorridenti, anche Giuseppe Conte e Xi Jinping.

In Italia si parla soprattutto di opportunità commerciali e annunciato aumento delle esportazioni verso un mercato in grande espansione. I più scettici parlano soprattutto di porti, telecomunicazioni e 5G. In Cina, invece, si parla soprattutto di un altro dei ventinove accordi firmati quel giorno: la restituzione di settecentonovantasei reperti archeologici imperiali da parte dell’Italia.

La valenza dell’adesione di Roma, più che economico-commerciale, è per Pechino soprattutto simbolica: l’Italia è il primo Paese G7 a fare il suo ingresso nel mega piano di Xi Jinping, un esponente dell’Occidente più avanzato riconosce l’ascesa cinese sul palcoscenico globale. Non solo. Con la restituzione di quei reperti riconosce anche il ruolo della Cina nella storia, chiudendo finalmente le ferite del “secolo delle umiliazioni”.

Poco più di quattro anni dopo, l’Italia deve prendere una decisione: confermare l’accordo in scadenza nel marzo del 2024, oppure comunicare l’uscita dalla Belt and Road. Comunicazione che dovrà arrivare al massimo il 23 dicembre prossimo, per rispettare i novanta giorni di preavviso.

Ma i giochi si stanno facendo adesso, col governo Meloni che secondo più fonti – anche de Linkiesta – sembra intenzionata a non prorogare l’accordo quinquennale. La premier e Fratelli d’Italia hanno sempre criticato aspramente l’adesione italiana: durante la campagna elettorale della scorsa estate, Giorgia Meloni ha più volte preannunciato la cancellazione dell’accordo. I toni si sono fatti poi più cauti una volta entrata a Palazzo Chigi, soprattutto dopo l’incontro con Xi a margine del summit del G20 di Bali dello scorso novembre.

E anche negli incontri successivi, in particolare in quello tra il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il capo della diplomazia del Partito comunista Wang Yi, si è espressa da ambo le parti l’intenzione di approfondire e rafforzare le relazioni commerciali. Più di quanto accaduto da quella firma, evidentemente, visto che i risultati non sono stati quelli attesi. Anzi, nel 2019 le esportazioni italiane verso la Cina si sono persino ridotte rispetto a quelle del 2018 e del 2017. Per poi invece alzarsi nel 2020 e nell’ultimo biennio, passando dai 14,5 miliardi di dollari circa ai 18,5 miliardi.

Non l’esplosione che ci si aspettava, in ogni caso. Ovviamente, ha influito la pandemia di Covid-19, iniziata poco dopo l’accordo, così come la guerra in Ucraina. Ma nello stesso periodo è aumentato in maniera netta l’export cinese verso l’Italia. Si è passati dai trentaquattro miliardi di dollari del 2019 agli oltre cinquanta del 2022. Segnale che la bilancia commerciale che si voleva riequilibrare anche grazie all’ingresso nella Belt and Road è ancora più sbilanciata di prima.

D’altronde, per fare affari con la Cina non è certo necessario far parte della Via della Seta, nonostante pare che questa fosse la convinzione dell’allora governo gialloverde. A dimostrarlo ci sono i casi di Francia, Germania e Brasile, tre Paesi che non hanno mai firmato il Memorandum of Understanding ma che anche di recente hanno firmato accordi con la Cina per svariati miliardi di dollari. Addirittura il 25 marzo 2019, due giorni dopo l’adesione italiana al progetto cinese, Xi incontrò Emmanuel Macron a Parigi: quel giorno furono firmati accordi bilaterali per quasi quaranta miliardi di euro, compresa una mega commessa per Airbus da trenta miliardi.

Eppure, uscire dalla Via della Seta ha una valenza politica. Così come ce l’aveva aderirvi. Non si tratta di un accordo vincolante, si tratta semmai di un documento “ombrello” che manifesta la reciproca intenzione di approfondire i rapporti. Proprio per la sua vaghezza, la portata politica è rilevante, ancora di più dopo che il clima geopolitico globale ha fatto sì che la percezione della Cina passasse da «opportunità» a «minaccia».

Già prima dell’arrivo di Meloni, l’Italia ha iniziato una lunga retromarcia sul fronte cinese. Nel primo Consiglio dei ministri del governo Conte bis, quello giallorosso, viene varato l’utilizzo del golden power in materia di telecomunicazioni. In maniera non ufficiale, il provvedimento aveva la valenza di stoppare la penetrazione di Huawei sulle infrastrutture di rete 5G in Italia. Subito dopo la retromarcia anche sul fronte della cooperazione spaziale, con il riavvicinamento a Washington in un settore ritenuto strategico. Stop anche sui porti, in particolare Trieste. Mentre su Taranto e Palermo le perplessità erano in realtà di parte cinese, vista la difficoltà dei collegamenti ferroviari via terrestre.

A fine gennaio 2020, meno di un anno dopo l’adesione alla Belt and Road, l’Italia diventa uno dei primi Paesi al mondo a bloccare i voli diretti con la Cina causa Covid. Una mossa vissuta come un mezzo tradimento da Pechino. L’arrivo di Mario Draghi riposiziona nettamente l’Italia sull’asse euroatlantico, con l’utilizzo del golden power per bloccare diverse acquisizioni cinesi: non solo 5G e telecomunicazioni, ma anche semiconduttori e mobilità.

Meloni pare destinata a completare questa retromarcia, anche per la necessità di dare segnali di affidabilità a Washington sul fronte Cina (viste le perplessità sui passati rapporti con la Russia dei due partner dell’esecutivo). Inoltre, nel 2024 l’Italia ospiterà il summit del G7. Improbabile che lo faccia confermando l’adesione alla Belt and Road. Detto questo, il governo non vuole rompere del tutto con la Cina. Il mondo imprenditoriale italiano, a partire da quello presente in Cina, è preoccupato dalle ripercussioni della fuoriuscita dall’accordo e teme possibili ritorsioni.

D’altronde Pechino non ha esitato a utilizzare la leva economica come un’arma nelle relazioni bilaterali. Lo insegnano i casi di Lituania, Canada e Australia. Anche per questo l’intenzione di Meloni sembra essere quella di politicizzare il meno possibile la decisione, mostrandosi anzi disponibile ad accordi di altro tipo con Pechino. A patto di togliere quell’etichetta diventata ormai troppo scomoda della Belt and Road.

L’impresa non è semplice. Alcuni osservatori ritengono che l’uscita dall’accordo è in ogni caso una linea rossa per Pechino. Per altri, invece, a fare la differenza sulla reazione cinese saranno anche i dettagli. Se Meloni dovesse annunciare l’uscita dall’accordo durante il G7 di Hiroshima del prossimo fine settimana, o ancora durante la prossima visita alla Casa Bianca che potrebbe avvenire a giugno, sarebbe considerato un affronto. Molto diverso, invece, se la premier riuscisse ad aspettare un colloquio o un incontro con Xi: in quel caso la Cina avrebbe la prova che l’Italia tiene alle relazioni bilaterali e vuole provare a mantenere la cooperazione. Facendo magari due passi indietro in ottica Belt and Road ma facendone poi un altro in avanti subito dopo con altri documenti bilaterali.

La Via della Seta è la manifestazione visibile delle mire economico-diplomatiche della “nuova Cina”, le neonate Global Security Initiative e Global Civilization Initiative rappresentano invece il modello concettuale e teorico con cui Pechino ha la pretesa di presentarsi come potenza responsabile e garante di stabilità sulla scena globale. Anche per questo, forse nemmeno a Xi conviene creare una rottura diplomatica con l’Italia.

Lecito attendersi che in ogni caso Pechino chieda contropartite rilevanti per attutire il colpo politico dell’uscita dal progetto. La gestione della vicenda rappresenta un test probante per la politica estera del governo Meloni. Di certo, con quella firma del 23 marzo 2019 l’Italia s’è esposta a delle conseguenze. Soprattutto per l’assenza di una visione strategica sul medio (ma forse anche breve) termine.