Le recenti notizie provenienti dalla Polonia, di cui anche la Corte di Giustizia europea ha riconosciuto il grave attacco all’indipendenza della magistratura e allo stato di diritto, non meno di quelle provenienti dall’Italia, da ultimo con l’attacco alla Corte dei conti, hanno spinto molti a rilanciare l’allarme per una possibile deriva ungherese (o polacca) del nostro sistema democratico. Trattandosi di un pericolo che su queste pagine, non da solo, ho più volte denunciato prima delle elezioni, avrei dunque motivo di rallegrarmi. Confesso invece di essere piuttosto irritato.
Non entro nella questione di merito circa l’effettiva gravità dell’abolizione del cosiddetto «controllo concomitante» della Corte dei conti sul Pnrr, perché non è questo il punto: gli atti concreti e le scelte simboliche che confermano quanto sia forte in Fratelli d’Italia la tentazione di seguire il modello delle democrazie illiberali dell’Est sono così numerosi, a cominciare dai voti espressi nel parlamento europeo in loro difesa, per finire con i selfie di Giorgia Meloni con Viktor Orbán, che uno in più o in meno non fa grande differenza. E anche l’ultimo episodio, solo apparentemente minore, che riguarda la scelta di rititrare il patrocinio della regione Lazio al gay pride (con il risibile pretesto che promuoverebbe la maternità surrogata) si inserisce perfettamente nel filone e dà ulteriore conferma a questa tendenza.
Il punto è che bisogna decidersi. Non si può, ogni santa volta, sin dai tempi in cui Silvio Berlusconi era ancora calvo, prima gridare al pericolo della palude e al ritorno del grande centro, prima sostenere che il problema dell’Italia è la mancanza di governabilità (altro che autoritarismo), prima invocare leggi maggioritarie sul modello dei sindaci che diano in sostanza i pieni poteri al capo dell’esecutivo (regalandogli una sicura maggioranza, per dir così, a prescindere), e poi, quando a vincere non sono gli amici tuoi, gridare al rischio di involuzione autoritaria e al regime incombente.
Ammesso e non concesso che il ritorno della Democrazia cristiana (al posto del ventennio berlusconiano e del successivo decennio populista) fosse effettivamente un pericolo da scongiurare, anziché un miracolo da invocare a mani giunte; concesso pure che una tale ipotesi avesse il benché minimo fondamento e non fosse un puro feticcio polemico; se l’alternativa era effettivamente il rischio di sprofondare in un regime autoritario, per quale ragione al mondo non avremmo dovuto comunque tuffarci di corsa nella palude, richiamando immediatamente in servizio tutti i più grigi e più compromessi esponenti della Balena bianca?
Chi fino a oggi si è battuto per il sistema in cui «chi vince prende tutto», chi ha demonizzato qualunque tentativo di tornare al proporzionale (come quello che su queste pagine, prima delle elezioni, abbiamo tentato di promuovere, esattamente con l’argomento del rischio ungherese), non può svegliarsi adesso e gridare al lupo semplicemente perché hanno vinto quegli altri.
Se oggi si dice che c’è effettivamente un simile pericolo per l’equilibrio e la divisione dei poteri, il pluralismo, lo stato di diritto, come hanno fatto leader, intellettuali e giornali di opposizione, a cominciare da Romano Prodi, bisogna pur spiegare perché fino al giorno prima delle elezioni (e per tutti i trent’anni precedenti) si è sostenuto che il problema dell’Italia era che l’esecutivo aveva troppo poco potere, che le maggioranze erano troppo fragili, che il nostro guaio era la mancanza di governabilità.
Su queste contraddizioni Meloni può fare leva oggi per promuovere un progetto presidenzialista senza contrappesi che non esiste in nessuna parte del mondo. Specialmente se, come sembra ormai deciso, prenderà la strada dell’elezione diretta del presidente del Consiglio, caldeggiata anche dal Terzo Polo. Una soluzione che toglierebbe ogni reale potere al presidente della Repubblica, alterando completamente l’equilibrio dell’intero assetto costituzionale, con rischi enormi.
Va però anche detto che Matteo Renzi, principale sostenitore di questo modello, già da molti anni degnamente battezzato del «sindaco d’Italia», ha almeno il buon gusto di non gridare, dopo le sconfitte elettorali, all’involuzione autoritaria.
La deriva ungherese (o polacca) è una minaccia grave. Meriterebbe un’opposizione seria.