Il radicalismo non si addice a un moderno partito riformatore, se questo solo al radicalismo ispira i suoi comportamenti. In estrema sintesi è questa la critica che arriva da uno dei mondi di riferimento di Elly Schlein, quel segmento del pensiero cattolico democratico che politicamente si rifà alla figura di Romano Prodi, facendo così scricchiolare sotto i piedi della leader del Partito democratico una delle assi fondamentali della costruzione della sua immagine politica.
E già, perché il fatto che vacilli il consenso proprio dentro uno dei punti forti dell’“amalgama” schleiniano segnala una improvvisa difficoltà laddove meno te lo aspetti. Già nell’intervista a Fabio Martini (La Stampa, 31 maggio), l’inventore dell’Ulivo, molto allarmato per il rischio di «autoritarismo» che questa destra evoca, era apparso un po’ sfiduciato sulla capacità di contrastare questo pericolo da parte del Partito democratico al quale peraltro calava un fendente sulla vicenda della contestazione al Salone del Libro ai danni della ministra Roccella: «È stato un autogol. Istintivamente si può pensare che quelli erano dei “ragazzotti”, ma questo non giustifica nulla. Si doveva dire che una contestazione di quel tipo è inammissibile».
Per capire le ragioni di questa delusione in termini analitici basta prendere l’importante articolo di Gianfranco Brunelli, direttore della rivista Il Regno, quella che organizzava tanti anni fa gli incontri di Prodi a Camaldoli e che è un punto di riferimento culturale molto importante per quell’area. Dopo un lungo excursus sulla fase nuova che si apre adesso dopo la morte di Silvio Berlusconi, Brunelli alla fine giunge alla questione del Partito democratico: «Perché il sistema italiano si normalizzi in chiave bipolare, dando compimento a quella transizione infinita cui neppure il protagonista Berlusconi, soprattutto per interesse personale, ha dato risposte adeguate, è necessario che si costruisca anche il polo di centro-sinistra. Oggi in quell’area c’è il vuoto politico. La riconsegna del Partito democratico che Enrico Letta ha fatto, attraverso la vittoria di Elly Schlein alla segreteria, ai bersaniani di Articolo 1, cioè alla classe dirigente ex-post-comunista, ha di fatto spaccato il partito e lo ha consegnato all’ala neo-radicale».
Nella sua brevità, è sul piano fattuale una ricognizione che diremmo inattaccabile, nel senso che certo si può discutere sulla filiazione, forse qui troppo diretta, tra il post-comunismo e il radicalismo (che, non va dimenticato, è all’origine contro la politica del comunismo italiano), ma è un aspetto secondario.
Qui piuttosto balza in evidenza un cazzotto nell’occhio al cattolico democratico Enrico Letta che «attraverso la vittoria di Schlein» ha combinato un disastro, cioè «spaccato il partito» consegnandolo «all’ala neo-radicale».
Un pensiero rintracciabile anche in un tweet di qualche giorno fa di Arturo Parisi, inventore dell’Ulivo e da sempre vicinissimo a Prodi: «Non è la nuova segretaria Schlein che cancella la storia del Pd ma è la cancellazione del vecchio Pd con la sostituzione di un Nuovo Pd che ha consentito l’elezione di Schlein. A quando l’autocritica di quanti hanno sostenuto e acclamato l’iniziativa di Enrico Letta?».
Non è la nuova segretaria Schlein che cancella la storia del Pd
ma è la cancellazione del vecchio Pd con la sostituzione di un Nuovo Pd che ha consentito l’elezione di @ellyesse Schlein
A quando l’autocritica di quanti hanno sostenuto e acclamato l’iniziativa di @EnricoLetta ? https://t.co/8YfKSYnHwU— Arturo Parisi (@Arturo_Parisi) June 20, 2023
Ecco il punto vero. Con l’operazione-Schlein si è data vita a un «nuovo Pd» che non è un passo ulteriore del cammino iniziato nel 2007 ma una sua contraddizione: riducendosi a un mero ruolo di testimonianza del disagio in chiave neo-radicale questo Partito democratico ha sostanzialmente abdicato al compito storico di rappresentare il polo riformista dentro un quadro autenticamente bipolare e la subalternità al populismo dei Cinquestelle non è altro che la rinuncia a una prospettiva di governo dentro un sistema politico organizzato su due alternative.
E poi ovviamente ce n’è per lei, la giovane leader: «La segreteria Schlein, nonostante l’appoggio della Cgil – scrive il direttore del Regno – non sembra in grado d’elaborare alcuna linea politica. Una leadership debole, confusa, chiusa in uno schema politico settario, alla rincorsa dei Cinquestelle immaginando d’intercettarne il voto, ha posto in pochi mesi il Partito democratico ai margini del sistema politico, in posizione subalterna a un movimento che già di suo fatica a immaginare un futuro politico. Basta infatti qualche esternazione saltuaria e irresponsabile di Grillo a far saltare il quadro». E qui siamo al cuore dell’attacco del Regno. Gli aggettivi sono pesanti. La bordata è su un Partito democratico «ai margini del sistema politico» anche, e forse soprattutto, a causa dell’inseguimento e della subalternità a Giuseppe Conte.
Brunelli non si limita a Elly Schlein ma chiama in causa chi, nel Partito democratico, dovrebbe caratterizzarsi come un’alternativa: «La costruzione di un sistema bipolare e competitivo non ha in questo momento alcuna sponda credibile nell’attuale centro-sinistra. La parte riformista del Pd è – e si è posta per opportunismo – fuori gioco» e dunque «questa sinistra non ha alcuna possibilità di andare al governo e può perdere anche negli enti locali».
A completare il quadro un’altra solenne bocciatura, stavolta per il Terzo Polo, o ex Terzo Polo: «Non migliori prospettive sembrano avere Carlo Calenda e Matteo Renzi. Renzi è certamente un politico di razza, ma per eccesso di tatticismi e di personalismi ha consumato oramai ogni credibilità. Gioca alla propria permanenza. La riforma del sistema politico italiano non è più nelle sue possibilità».
Questo è il quadro che ci descrive Il Regno. Che con sapienza antica indovina un senso comune e un’opinione molto più larga della fetta di cattolicesimo democratico che da anni rappresenta con vigore intellettuale e morale. C’è materia per riflettere, al Nazareno.