Qualche settimana fa, in un luogo pubblico, mi si è avvicinata una signora. Mi ha detto: non mi riconosci, vero? Ho riso e ho detto le solite cose, peraltro vere, che dico in questi casi: non riconosco mai nessuno, faccio sempre figuracce, eccetera. La signora a quel punto mi ha detto il suo nome.
Ho pensato: figlia mia, per forza non ti riconoscevo, l’ultima volta che ti ho visto avevi quarant’anni, adesso ne hai settanta e sembri tua nonna. Non gliel’ho detto. Non perché sia una personcina beneducata: perché mi picco di non essere una conversatrice noiosa, e dire a una persona una cosa che sa già – che in trent’anni è invecchiata trent’anni – non ti rende la più brillante conversatrice del codice postale in cui ti trovi.
Lei, che evidentemente pretende meno da sé stessa in termini di civiltà della conversazione, subito dopo essersi presentata, senza neanche passare per lo svincolo d’un «come stai, quanto tempo», è andata dritta a dire quel che le premeva dire: hai ancora la stessa faccia bellissima, però devi dimagrire.
Mi sembrava disutile farle presente che, come lei sa d’essere invecchiata trent’anni, io so d’essere invecchiata quaranta chili: se un’adulta non ci arriva da sola, a una simile ovvietà, mica la puoi rieducare. Mi sarebbe però dispiaciuto vederla linciata su qualche mezzo di comunicazione se frasi così improvvide le avesse rivolte a un’altra.
Ho quindi proceduto a spiegarle che questo in cui ci reincontravamo è un altro secolo, che non puoi dire alla gente «devi dimagrire», che non è socialmente accettato. Lei – che è di Bologna, una città ferma al Novecento in un modo che andrebbe studiato dagli autori di fantascienza – insisteva: ma io voglio che tu sia ancora bella come una volta. Neanche quel minimo di finzione scenica e salvataggio in corner che sarebbe stato costituito da «ma lo dico per la tua salute». Ho lasciato perdere (a Bologna si dice: ho mollato il colpo): certe persone sono irredimibili nel loro non aver capito in che secolo si trovano.
Qualche sera fa nel programma di Piers Morgan era ospite Brian Cox, il Logan Roy di “Succession”. La mia regola è che bisogna intervistare solo gente che abbia superato i settant’anni, perché è l’unica che si salvi dal dualismo «tremebondi perché poi l’internet si offende» vs «la sparo grossissima per far vedere che non ho paura dell’internet che si offende»: la gente che è per età più vicina alla morte che alla nascita si permette il lusso di dire quel che le pare non per provocazione ma perché sì.
(E anche di rifiutarsi di dire: a fine intervista parlavano di non so che attore che si offende se un non gallese fa un personaggio gallese, e Cox ha detto ma figuriamoci, io sono scozzese e il gallese l’ho fatto benissimo, e Morgan gli ha chiesto di fargli l’accento gallese, e quello l’ha guardato con tutto l’educato disprezzo possibile e ha detto «mica sono una scimmietta ammaestrata»).
Comunque. A un certo punto Cox racconta che non è mai stato famoso come ora, mai l’hanno riconosciuto di frequente e in maniera sfinente come gli accade da quando ha fatto “Succession” (la fama è un inferno, il che rende particolarmente lunare quest’epoca in cui tutti bramano la riconoscibilità). Dice che in Cina pensava di poter stare tranquillo, e invece anche lì, a un certo punto, «Logan Loy!». E a quel punto c’è un impagabile mezzo secondo in cui sulla faccia di Cox si vede passare il pensiero «oddio ora chi li sente che ho fatto l’accento cinese», subito seguìto dal pensiero «peggio per loro».
Ecco, il «peggio per loro» è il lusso che fa la differenza, questo avrei dovuto spiegare alla tizia che va in giro a dire «ma come sei ingrassata»: tu sei certa che se io armo uno scandalo tu poi sei nella posizione di fregartene? Perché, se non lo sei, è meglio adeguarti al secolo in cui ti trovi. È tutto lì: non è che non si possa più dire niente, è che si ha il dovere d’essere abbastanza svegli da sapere quali conseguenze ti tocchino, e se hai le spalle abbastanza larghe per affrontarle.
Ieri, durante una competizione sportiva (quella forma di teatro inventata per chi è troppo analfabeta per andare a teatro), i commentatori della Rai hanno detto delle cose che l’internet si è affrettata a riportare come se fossero state il massimo dell’impresentabilità possibile. Una di queste era «Liccaldo», ovvero come secondo loro i cinesi chiamerebbero un atleta di nome Riccardo. I commentatori sportivi sono Brian Cox? Certo che no.
E infatti, quando un carneade dell’internet ha detto ai suoi follower che aveva mandato una pec alla Rai (una pec! Se questi tempi non esistessero, non sapremmo inventarli), l’internet (e i giornali che pigramente la copincollano) si è precipitata a dargli ragione, a indignarsi, e il direttore generale della Rai ha dovuto diramare il suo bravo comunicato.
«Un giornalista del servizio pubblico non può giustificarsi relegando ad una “battuta da bar” quanto andato in onda. Ho dato mandato agli uffici preposti di avviare la procedura di contestazione disciplinare e ho chiesto al direttore di Rai Sport Iacopo Volpi che faccia rientrare dal Giappone immediatamente il cronista e il commentatore tecnico» (a parte «relegare» usato come significasse «declassare», a parte le eufoniche, a parte la bruttezza delle costruzioni verbali, nell’originale «servizio pubblico» è scritto con le maiuscole, e insomma possiamo occuparci dei comunicati analfabeti almeno quanto dello spirito di patate dei cronisti?).
Le leggende su RaiSport sono meravigliose, gente che torna dalle trasferte con interi blocchetti di ricevute in bianco dello stesso ristorante, e per carità sono di certo solo leggende (a nessuno di noi è mai, il primo giorno in una redazione, stato insegnato come rubare sui rimborsi spese, mai e poi mai). Però, se invece di dire «resti lì e fai solo servizi chiusi in cui possa controllare che tu non dia delle culone alle atlete e dei musi gialli ai cinesi, visto che in diretta di te non ci si può fidare», il provvedimento è «allora torni subito dalla gita premio», ecco, poi diventa difficile non credere alle leggende.
Ancora una volta, l’internet ha chiesto la testa d’un pesce piccolo e l’ha ottenuta, illudendo Carneade di contare qualcosa, e noialtri che esista l’accountability (un concetto per cui in italiano neppure c’è la parola). Carneade a un certo punto ha twittato «immagino che si fossero dimenticati di essere in onda su Raiplay 2 perché aspettavano la diretta sulla rete tv che invece è arrivata soltanto alla fine della prima rotazione di finale. Il punto è che comunque non sono cose da dirsi», perché la meraviglia è questa: un’epoca che ha i libri di Orwell sul comodino epperò ambisce a regolamentare non solo i discorsi che le persone fanno in onda, ma quel che dicono in privato, anzi addirittura i pensieri che è consentito avere.
Tutto questo per una cosa che nessuno di noi ha visto: di «Liccaldo» (nella pec di Carneade: «commento stereotipato sinofono») esiste un video, ma le parti in cui i due con lo spirito di patate a pie’ di lista avrebbero detto che le olandesi sono grosse, «ma tanto a letto sono tutte alte uguali», non stanno neppure su RaiPlay. «Se lo avessi lo avrei già messo perché sto tremando», risponde Carneade, reuccio del prenderla bassa, a una richiesta di prova. L’indignazione sulla fiducia.
Sottile è il confine tra cancel culture e coglionaggine, per chi si rifiuta di prendere atto del secolo in cui si muove e di misurare il proprio potere personale e chiedersi se gli sia consentito dire cose che scandalizzeranno i carneadi con uso di wifi. Il problema non è la libertà d’espressione, o la censura, o il politicamente corretto. Il problema è: vale la pena rinunciare al pie’ di lista, in cambio dello spirito di patate?