La guerra non è finita, ma l’Ucraina ha già i suoi luoghi della memoria. Gli ucraini sono inguaribili ottimisti, e quindi sono sicurissimi che la memoria avrà un futuro diverso dal passato e dal presente lordato dalle persecuzioni e dall’annientamento culturale operato da secoli dall’imperialismo di Mosca.
A Irpin, uno dei paesi devastati dall’armata rossa durante il primo mese di invasione su larga scala, gli ucraini hanno deciso di costruire un memoriale intorno all’iconico ponte spezzato a metà che univa la cittadina alla capitale Kyjiv, costruendone uno di fianco più grande e più bello e ormai quasi pronto a ricollegare velocemente le due città.
I russi hanno ucciso trecento civili e ottanta soldati, la campagna intorno al fiume è ancora minata e off limit per i civili, con l’eccezione di un signore anziano che pesca sull’argine del fiume che scorre sotto le macerie del ponte abbattuto.
Irpin è un agiato sobborgo di Kyjiv, dove la classe media della capitale ucraina prima della guerra aveva una dacia o si era trasferita alla ricerca di spazi più grandi e di scenari naturali impensabili in città. In pochi giorni i russi hanno trasformato le sue placide strade in un inferno di morte, di detriti e di veicoli incendiati. Poco più di un anno dopo, sulle stesse strade sfrecciano automobili luccicanti e lungo i viali, a destra e sinistra, ci sono decine di villette nuove che giustificano chi definisce Irpin la Beverly Hills di Kyjiv.
C’è solo da immaginare, e da ammirare, il livello di fiducia nel futuro che può muovere il singolo cittadino ucraino che ha deciso di investire i risparmi di una vita per ricostruire una casa a Irpin diciassette mesi dopo l’occupazione e la distruzione della precedente, con la guerra ancora in corso e con la possibilità non irragionevole che prima o poi i criminali russi possano tornare a fare tabula rasa dell’Ucraina.
Anche il piazzale dove sono state ammassate le automobili crivellate dai colpi dell’esercito invasore è diventato un altro altare della patria che lascia senza parole, specie quando arriva a visitarlo una famiglia con bambini silenziosi e consapevoli della solennità del luogo.
La prima cosa che si nota entrando a Irpin, ma poi anche a Bucha e a Borodyank, è quanto questi posti sbudellati dall’artiglieria russa non siano per niente lande desolate e dimenticate dagli uomini e dagli dei. Colpisce, al contrario, ancora adesso che mostrano i segni della barbarie imperialista, quanto siano quartieri residenziali per benestanti tipici della Mitteleuropa, con favolosi giardini curati all’inglese e con lotti di terreno dove un anno e mezzo fa c’erano palazzi di nove piani e, ora che sono stati ripuliti dalle macerie, pronti a urbanizzarsi una seconda volta. E, poi, anche con un ristorante come Otamansha che, nonostante il saccheggio subìto dai russi, è stato il primo a riaprire e a riprendere a servire il miglior borscht della regione e gli infusi di frutta uzvar e kampot per pasteggiare con i ravioli d’agnello, di patate e di cavolo.
Entrando a Borodyank, la città della regione di Kyjiv più colpita dai russi, i palazzi danneggiati sono sezionati a metà come succede solo dopo i terremoti. Nei piani alti di quel che resta in piedi si vedono ancora le suppellettili delle cucine o delle stanze da letto, rimaste cristallizzate a futura memoria alla fine di febbraio del 2022.
Attraversando la strada, di fronte agli scheletri del quartiere d’era sovietica distrutto dai missili, c’è la gigantesca statua del grande bardo degli ucraini Taras Shevchenko, cui i russi hanno avuto la bella idea di sparare alla testa, lasciando sulla statua un foro di dieci centimetri all’altezza della tempia sinistra.
Gli ucraini ne hanno fatto un altro santuario della memoria, dove organizzare le manifestazioni contro l’imperialismo russo, a favore dei resistenti di Mariupol e per rilanciare la campagna per l’esclusione di Mosca dalle Nazioni Unite.
E poi c’è Bucha, il luogo simbolo dei crimini di guerra russi, anzi dei crimini contro l’umanità pianificati dal Cremlino ed eseguiti dai suoi volenterosi carnefici.
Per accedere al memoriale costruito per ricordare le centinaia di vittime ucraine gettate dai russi nelle fosse comuni, quelle che qualche farabutto in Italia insinuava fossero una messinscena di Volodymyr Zelensky e degli americani, bisogna entrare nel parco su cui si affaccia la cattedrale di Sant’Andrea e ogni santi.
All’ingresso c’è una signora, Vira, che ai visitatori stranieri racconta che cosa è successo in quei giorni di febbraio del 2022 nel grazioso parco della cattedrale dove i russi hanno ammassato i corpi dei civili ucraini colpevoli soltanto di essere ucraini.
«Non ci abbandonate per favore – ripete in ucraino Vira, il cui nome significa fede ed è madre di un figlio in prima linea – grazie, grazie, grazie, continuate a sostenerci sempre, sempre, sempre».