Una delle non moltissime sfide memorabili all’epoca dei collegi uninominali fu quella nel 2001 tra Massimo D’Alema e Alfredo Mantovano a Gallipoli. Una bella gara anche perché era senza paracadute del proporzionale, o dentro o fuori. Silvio Berlusconi mandò un elicottero per fare propaganda per il candidato di Alleanza nazionale anti-D’Alema. Alla fine prevalse proprio D’Alema, seppur di poco («Il Cavaliere ha sprecato il carburante», ironizzò il lìder Maximo).
Quella volta davvero il capo dei Ds ebbe paura di non rientrare in Parlamento: quel Mantovano si rivelò un osso durissimo. Perché Alfredo Mantovano, sessantacinque anni, leccese, è un politico tosto. Oggi è sottosegretario alla presidenza del Consiglio ma in realtà è un vicepresidente-ombra che fa, appunto, ombra a Matteo Salvini (che molto ne soffre) e Antonio Tajani, che invece fischietta come sempre.
Da ultimo, Giorgia Meloni ha messo nelle sue mani la patata bollente dell’immigrazione, esautorando un Matteo Piantedosi che dai fatti di Cutro è politicamente sotterrato, e senza coinvolgere Salvini che si ritiene il dominus della questione.
È solo un esempio, ma dà il senso del peso del sottosegretario alla presidenza, che non a caso maneggia il dossier dei servizi. Senza questo uomo di legge, ex magistrato, politico da trent’anni ma senza essersi mai sporcato le mani con la politica intesa alla Rino Formica – «sangue e merda» –, gentile senza essere untuoso (da giovani cronisti parlamentari non ricordiamo una sua risposta che non fosse più che garbata, forse anche perché addolcita da una particolare erre moscia), dotato di uno spiccato senso delle regole che gli consente di essere l’interlocutore primo del Quirinale. Il tutto, per Mantovano, incapsulato in una inflessibilità ultra-conservatrice un po’ ottocentesca e da baciapile ben distinta e distante dall’antimodernità militante di una Eugenia Roccella: il sottosegretario ha fatto le sue battaglie contro l’aborto, la fecondazione assistita e quant’altro, e probabilmente ritiene che tutto discenda da Dio ma tutto questo non lo porta a manifestazioni di intolleranza.
Rigido sui principi, mediatore in politica: ingredienti che fanno di Mantovano l’uomo giusto al posto giusto, il che gli garantisce oggi grandissimo potere.
Su di lui vengono scaricate le patate più bollenti, in questo assomigliando a predecessori come Enrico Micheli (sottosegretario di Romano Prodi, l’altro, Arturo Parisi, era la testa politica), Franco Bassanini (D’Alema), ovviamente Gianni Letta (Berlusconi), in grado minore Graziano Delrio (Matteo Renzi), tutte figure chiave dei rispettivi governi.
Mantovano, come tutti quelli citati, ha buone doti di ascolto, è arciconvinto delle proprie idee ma non chiuso al confronto. Sembra ma non è un democristiano. Non siamo in grado di dirlo con certezza ma non escluderemmo che in questo senso abbia contato la lezione di Pinuccio Tatarella, gran ras missino – e poi di Alleanza nazionale – della Puglia, col quale pure non furono sempre rose e fiori, ma quel che è sicuro è che pesa su di lui quel senso delle regole tipico del giurista di destra, secondo una particolare tradizione di avvocati del mondo missino come Giulio Maceratini, Raffaele Valensise, forse Romano Misserville, per non parlare del senso dello Stato di un uomo di destra come Paolo Borsellino.
Dalla sua, Mantovano ha anche un altra carta buona: non è e non vuole essere un leader di partito, dunque non s’impegola nelle ragnatele di potere dei seguaci di Giorgia Meloni, non punta al Parlamento Europeo, restando quindi al di sopra della politichetta di questa fase. Se fossimo in un altro tempo politico, Mantovano sarebbe una riserva nel caso di naufragio meloniano, ma è chiaro che se cade lei cade tutto il cucuzzaro. Cosi il “vicepremier ombra” non ha avversari che possano impensierirlo. Almeno per ora.