Buccaneering BrexitQuanto manca alla politica britannica uno come Rory Stewart

Il memoriale “Politics On the Edge” porta dentro Westminster negli anni convulsi dell’involuzione populista dei Tories, quando le voci più ragionevoli soccombono al fuoco incrociato. La disillusione non offusca la passione, semmai il contrario: fare la propria parte, a prescindere dall’epilogo

Rory Stewart
Foto Wikimedia commons

Quanto manca alla politica inglese uno come Rory Stewart. Se cercate aneddoti impagabili, il suo “Politics On the Edge” (edito da Jonathan Cape e purtroppo ancora non tradotto in italiano) fa per voi. I media britannici hanno già saccheggiato i passaggi su cui era più scontato titolare. C’è di più. Ascoltando una voce controvento – o quella della ragione, mentre al partito conservatore scoppia in casa una bomba chiamata Brexit – si ha l’impressione che «disillusione» non sia il termine adatto a incasellare il rapporto di Stewart con la sua vita precedente. Ammesso sia finita. Quella nuova è (anche) “The Rest Is Politics”, il podcast con Alastair Campbell, altra leggenda ma di campo laburista.

È un libro, chiariamolo, imprescindibile per ogni impallinato di politica, e non solo britannica. Si assiste al cursus honorum di un idealista, quando ancora era possibile: da deputato semplice fino al gabinetto di Theresa May, la candidatura alla leadership dei Conservatori, passando per una serie di scatti di carriera, o retrocessioni mai vissute come tali dal diretto interessato. Che animali strani questi politici inglesi. Come se la bugiarderia patologica di Boris Johnson – oggi in procinto di sbarcare in prima serata sulla Fox News alla teina dove già si sono accomodati Nigel Farage e Jacob Rees-Mogg – avesse contagiato l’intero partito in anticipo sulla sua scalata. Ma è piuttosto quella, così atipica, di Stewart a non far perdere la speranza, a prescindere dall’epilogo.

Nelle pagine vediamo scricchiolare una democrazia parlamentare, anche se plurisecolare; la lealtà cieca assurge a criterio per le promozioni. Eppure il memoir dell’ex deputato non riesce a offuscare la voglia di immischiarsi con il servizio pubblico, semmai il contrario. Più di uno stentoreo «Tu non puoi passare» – alla Gandalf, per capirci – somiglia al «Sei ancora in tempo, cambia lavoro» di un appartenente a una categoria professionale a caso che ti sconsiglia vivamente di seguire le sue orme, però gli leggi negli occhi la passione. La tua. Insomma, una specie di avvertenza. Una di quattrocento pagine, che però si divorano – a differenza delle scritte in piccolo delle condizioni d’uso, o dei cookies dei siti internet.

Andiamo con ordine. Prima di avventurarsi, Stewart parla con un ex leader dei Libdem che lo dissuade: se vuoi contare qualcosa, è il senso, devi unirti a una delle due major. E lui, che ha avuto la tessera laburista solo a diciott’anni, opta per un conservatorismo declinato in chiave centrista. Prima ancora l’Afghanistan, dove «tentavamo di imporre programmi fabbricati dai think tank di Washington e scongelati nei palazzi con l’aria condizionata di Bagdad». Ci starà più di tre anni. Penserà che valorizzeranno la sua esperienza, una volta approdato a Westminster; ma nelle commissioni ne parlano (altri) glorificando un contributo britannico che in realtà è un errore di arrotondamento di quello americano. Uno zerovirgola.

Questo non riuscire a farsi ascoltare ricorre in tutto il volume. Nelle posizioni apicali i Tories preferiscono i non specialisti, ancorché senior. Motivo? Non contestano le decisioni della «dittatura elettiva» incarnata da David Cameron. Il mondo al contrario, non quello del generale Vannacci. Qui l’ex diplomatico si accorge quant’era naïf, la politica politicante non è come mandare una newsletter. È un «dilettante in un mondo di professionisti», e professionalizzato. Le istruzioni del capogruppo agli esordienti sono chiare: non votate secondo coscienza, meglio il «gioco di squadra» perché «il primo ministro ha sempre ragione».

Sono i tempi di Cameron, che non lo vede benissimo: la conventicola di Eton traslocata a Downing Street, il dirigismo in sneakers. A Stewart l’interno del Parlamento sembra la sala da biliardo di un plutocrate d’età vittoriana, gli dà la claustrofobia finché non risale sul treno per la Cumbria. Tocca con mano una Gran Bretagna diversa, la realtà parallela di una nazione in miniatura: il suo collegio dove gli agricoltori dipendono dai sussidi dell’Ue e la sanità è così scadente che «non devo andare fino in Svizzera se voglio un’eutanasia», si rammarica una signora. A Londra d’altronde George Osborne, plenipotenziario del premier, gli sembra «un cardinale francese del diciottesimo secolo».

I discorsi, in aula, sono smancerie: complimenti a vicenda. Dentro il salone, l’austero Westminster Hall, c’è un bidone di compensato per intercettare la pioggia che cade. È un po’ la metafora di tutto. Guardando le vecchie glorie della stagione della Thatcher o di John Major, ormai cariatidi, ha paura di vedere la proiezione di se stesso nel futuro. Non sarà così. Al referendum d’indipendenza in Scozia, nel 2014, l’inner circle di Cameron punta tutto sul terrorismo psicologico, su apocalittiche conseguenze economiche: «Come se, minacciato di divorzio, rispondesse “Se mi lasci, diventerai più povera”, invece di “Ti amo”». Sì, la politica è anche una questione d’amore.

L’esecutivo affronterà così anche la campagna per il «Remain» nel 2016. La consultazione sull’uscita dall’Unione europea è l’arma segreta delle elezioni del 2015. L’algoritmo di Jim Messina, che ha lavorato alla campagna per il bis di Barack Obama, manda i candidati a una porta con un poster laburista sulla finestra. La promessa referendaria pagherà, assicurano però i sondaggisti. Cameron ottiene una maggioranza monocolore, ma ripete la strategia “scozzese”. Nessun dipartimento è autorizzato dal governo centrale ad attrezzarsi per la Brexit. Si concentra sull’economia e trascura «cultura e identità». Dà libertà di coscienza, ma se consente ai brexitari di imperversare sui media, tiene a freno i ministri remainers, cioè quasi tutti.

Nel frattempo l’autore ha fatto gavetta. «Il tuo problema, Rory, è che vuoi essere interessante per i media. Non essere mai interessante», è la mezza profezia di Liz Truss. Altre “lezioni” che gli fanno orrore: ma quale profondità dei piani ministeriali, la priorità è uscire sul Telegraph di venerdì. Massì, basta un elenco puntato. Nel nuovo ruolo, governativo, Stewart partecipa a un Consiglio europeo sentendosi «un delegato a una conferenza intergalattica». La Brexit gli sembra «una rivolta del pubblico», poi la stramba matematica elettorale del Regno Unito, con l’uninominale secco, fa perdere a May la maggioranza nonostante due milioni di voti più di Cameron.

Altri scorci impagabili. Al Foreign Office incrocia Boris Johnson, che detta le priorità – gli pare – sulla base dello sfoglio dell’Economist della settimana. Nemmeno tutto il numero, solo le prime cinque pagine. All’inaugurazione presidenziale in Kenia – epifania di un prestigio che non c’è più, chissà se a Londra se ne sono accorti – Stewart viene retrocesso dalla fila Vip: il posto va a un dignitario cinese, neppure un ministro. Intanto «il tremore sismico della Brexit ha rotto qualcosa di profondo al di sotto della crosta dei Conservatori». Il compromesso di May, il cosiddetto «backstop», lascia il Paese vicino a un’unione doganale con l’Ue. Stai a vedere che era davvero la migliore delle soluzioni possibili quella su cui si è sfasciato il partito.

L’ala destra preferisce una «Buccaneering Britain», la scommessa corsaresca di trattare con Cina e Stati Uniti. Il «no-deal è una truffa», lo sanno tutti, ma l’unico a dirlo pubblicamente è Stewart. Così si attira le ire di entrambe le fazioni: gli eurofobici, all’inizio minoritari, e pure chi vaneggia un secondo referendum. I colleghi non sembrano neppure aver consultato il patto di recesso con Bruxelles, il famigerato Withdrawal Agreement. Nella guerra fratricida tra bande, Stewart cerca di raggranellare i voti per scongiurare una «hard Brexit», cioè fa politica, mentre (ri)emerge Johnson. Tre gruppi convergono sull’ex sindaco della capitale: chi lo odia, chi lo ritiene un vettore per la vendetta o la riabilitazione; chi pensa sia un utile idiota.

Con gli op-ed sul Financial Times non si vince la battaglia per la leadership, Stewart lo sa. Incontra Dominic Cummings (stratega poi defenestrato dalla corte di Boris) che gli regala, su un tovagliolo, lo slogan perfetto: «Get Brexit done, beat Jeremy Corbyn, unify the country». Se vi suona familiare è perché l’ha venduto anche agli altri. Stewart, invece, sogna un Regno Unito come Hyde Park. Capisce che la viralità, i social network, possono essere un’arma anche per chi non è populista. Ci crede. Il congresso per la successione a May sembra la selezione di una mascotte. Peccato non votino i sondaggi (che lo premiano, è ritenuto il profilo più affidabile), ma in quel bizantinismo siano i parlamentari a scremare il duo da sottoporre agli iscritti al partito.

Stewart domina il primo dibattito per la leadership; nel secondo gli silenziano il microfono, non riesce a incidere nella cacofonia. Difende le soluzioni complesse, non fa promesse che non potrà mantenere. Cerca di smascherare la falsificazione della realtà, accettata passivamente dallo stato maggiore Tory che mente sapendo di mentire, e guardando in camera. «Per quasi trent’anni lo Stato aveva assorbito ogni mia più romantica illusione sul servizio pubblico. Ma ora, al culmine della mia carriera, ero intrappolato nel cliché di un reality show con il casting fatto male». Come va a finire lo sappiamo: la sbornia di Johnson, contaballe seriale, e la bancarotta dei Conservatori, finiti in amministrazione fiduciaria a Rishi Sunak.

Il loro naufragio è coinciso – a tratti – con quello di una nazione. Ora i rapporti di vicinato con l’Ue sono migliorati, in parte per merito dell’ultimo premier dei tredici anni di paura e delirio a Downing Street e del suo Windsor Framework. A noi restano un personaggio libresco che per sbaglio si versa addosso il cappuccino la mattina in cui finalmente diventa ministro (rango che Oltremanica corrisponde al nostro sottosegretario), o scorda di avere la cavigliera elettronica di un progetto pilota quando è promosso segretario di Stato (cioè ministro). La sua profezia sul «cataclisma climatico» prima che fosse mainstream, quindi prima di Greta. O, soprattutto, il paradosso di un Parlamento che resuscita dalla passività quando gli iniettano un odio polarizzante: e riscopre il suo ruolo solo quando sta per inabissarsi.

“Politics On the Edge”, di Rory Stewart, è pubblicato da Jonathan Cape, 464 pagine, ventidue sterline.

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