Facetime di vellutoCome non rispondere al telefono e altri utili consigli a Giorgia Meloni

Manuale a uso dei poteri rimbecilliti e della presidenza del Consiglio, dove c’è gente più rammollita delle segretarie Rai che tre decenni fa non riuscivano a filtrare Guaia Sorcioni con un’idea da proporre al capostruttura

Tutta la mia vita professionale dipende dal fatto che, quand’ero giovane, sapevo farmi passare la gente al telefono. Non vi regalerò certo i dettagli qui e oggi, altrimenti poi le mie autobiografie chi se le compra, ma: negli anni Novanta si telefonava.

Negli anni Novanta c’erano i telefoni fissi, c’erano le segretarie che rispondevano, e c’era un tono preciso, che io avevo perfezionato, con cui farsi passare quello cui poi avresti confessato che non vi conoscevate ma volevi fare un programma per lui, o scrivere per il suo giornale, o illustrargli un’idea.

Se la segretaria osava chiedere di cosa si trattasse, tornava utile Sandy Meisner, insegnante di recitazione americano che aveva perfezionato la tecnica della ripetizione delle frasi dell’interlocutore. La poverina incaricata di filtrare le chiamate chiedeva «per che cos’era» che cercavi il commendatore, e tu ripetevi con sprezzante sarcasmo «per che cos’era».

Nel tuo tono doveva esserci una confidenza ostentata (se pensavano tu fossi la sua amante o sua nipote, te lo passavano sicuro), e un sottinteso di evidenti temi di conversazione tra voi; così evidenti che, quando la tapina diceva al commendatore che al telefono c’era Guaia Sorcioni, e il tapino chiedeva chi mai fosse, quella si sentisse di rimproverarlo perché insomma, è evidente che lei e questa signorina avete molte questioni aperte e lei non si ricorda mai niente, ha ragione sua moglie.

Almeno i primi cinque anni della mia carriera sono dipesi dalla faccia come il culo necessaria a farmi passare la gente al telefono; abbastanza da ricordare ancora oggi, decenni dopo, l’unico la cui segretaria si rifiutò di passarmelo se non le spiegavo chi ero e cosa volevo (non me lo passò mai, non lavorammo mai insieme, e la volpuvista in me vorrebbe dire che è stato meglio così).

Oggi, non so come farebbe la me ventenne. Oggi che tutti hanno un cellulare, che nessuno risponde ai numeri che non conosce, che io stessa se mi scrive qualcuno che non conosco facendomi proposte di lavoro nei casi migliori non gli rispondo e nei casi peggiori (cioè: quelli in cui mi dà del tu) blocco il contatto su WhatsApp.

Oggi che io stessa, che non sono passata nel ruolo del commendatore ma non sono manco più abbastanza giovane da essere una collaboratrice speranzosa che propone cose agli sconosciuti, mi devo trattenere ogni volta dal chiedere aggressiva «chi le ha dato il mio numero», e mi trattengo solo perché una volta ho letto che è la domanda stizzita che fa sempre Bruno Vespa e non voglio scippare gli altrui format.

Oggi che però uno può farsi passare Giorgia Meloni. Ci sono diversi lati da cui si può prendere la vicenda «due comici chiamano Giorgia Meloni spacciandosi per diplomatici africani, e lei ci passa un quarto d’ora al telefono».

Uno è: ma povera donna, ma con tutto quel che ha da fare le fate pure perder tempo con gli scherzi, ma pensate sia Giambruno, ma non vi vergognate, ma per voi ci vuole il collegio militare.

Uno è: com’è che nessuno si accorge mai della lettera rubata, intesa come quella di Edgar Allan Poe, come mai nessuno si accorge mai dell’ovvietà, del comico con l’accento strano, del millantatore che riesce incredibilmente a passare tutti i filtri?

Me l’ero già chiesto ai tempi di “What is a woman”, e prima ancora ai tempi di “Borat”. Già il primo dei film in cui Sacha Baron Cohen si fingeva giornalista kazako era incredibile, ma col secondo come avevano fatto a cascarci? Eppure non poteva essere messinscena, Rudolph Giuliani non si sarebbe mai prestato a fare quella figura per finta.

E quindi qual è il trucco? Com’è possibile che alla presidenza del Consiglio ci sia gente più rammollita delle segretarie Rai che tre decenni fa non riuscivano a filtrare quella Sorcioni che ha un’idea da proporre al capostruttura?

Quest’estate ho rivisto “Scandal”, e mi sono chiesta come abbiamo fatto a scambiarlo per uno sceneggiato che alimentava la deriva paranoide – il servizio segreto deviato con le spie fenomenali che tengono per i coglioni il presidente, gente che è in grado di truccare le elezioni e ammazzare vicepresidenti senza che nessuno se ne avveda – invece che per un manifesto della cialtronaggine che ormai governa il mondo.

Nessuno alla Casa Bianca capisce che il capo del servizio segreto deviato è il padre della più scafata fixer di Washington, nonché amante del presidente, finché non glielo sillabano ben bene. Né se ne accorge la più esperta spia del mondo, uno che rilasciano anche se credono che abbia sparato al presidente per quanto sono preziosi il suo addestramento e il suo talento, e che però non aveva mai capito che la tizia per cui lavora è la figlia dell’uomo che l’ha imprigionato e torturato. D’altra parte in campagna elettorale nessuno aveva capito che la fixer e il candidato scopavano, in una di quelle situazioni tutti-nello-stesso-albergo che permettono persino a dei rincoglioniti quindicenni in gita scolastica di intuire chi vada a letto con chi.

“Scandal” ci aveva spiegato che i poteri forti sono innanzitutto poteri rimbecilliti, e noi non l’abbiamo capito. Certo, diranno i miei piccoli lettori, tra essere superspie e non saper controllare un numero sul display o un nome su Google ci sono talune vie di mezzo.

Ma il medico non sa farvi una diagnosi, l’avvocato non sa fare l’arringa, il barista sbaglia la temperatura del cappuccino, l’azienda per i rifiuti non riesce a tenere pulita la città, e il lavasecco vi restituisce i vestiti macchiati con un cartellino che avvisa che, ehi, ci sono delle macchie, mica questo abito ce l’avevi lasciato perché provvedessimo a levarle: perché mai solo i selezionatori di telefonate dovrebbero saper fare il loro lavoro?

Certo che è straziante sentire la presidente del Consiglio dire a un buffone «Can I ask you something, between you and me», come d’altronde è sempre straziante quella forma volgarissima di comicità che è lo scherzo. Ma sappiamo bene che in Italia non si licenzia nessuno, non il tizio che timbra in mutande, non il conduttore che propone partouze alle giornaliste, e di certo non uno che ci ha creduto, faccia di velluto.

E quindi la povera Meloni si terrà l’ennesimo degli innumerevoli cialtroni dai quali è circondata. In Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti, e non si può avere l’efficienza perché abbiamo le tutele sindacali.

Tuttavia, suggerirei alla Meloni d’ora in poi d’adottare il metodo preferito dai miei amici cornuti, che le mogli le videochiamano, con la scusa della nostalgia, per controllare che lo sfondo non sia quello di casa del tizio con cui sospettano esse giacciano. Dia retta, presidente: d’ora in poi Facetime, almeno una scrematura grossolana sul colore della pelle dell’interlocutore riesce a farla. Certo, se dubita che una carnagione russa corrisponda a un diplomatico africano e precipitosamente riattacca, le daranno della razzista; ma almeno poi non si trova il giullare intervistato nei programmi presunti seri a vantarsi di come l’ha gabbata.

Per tamponare questa ormai è tardi. Doveva chiamarmi subito. Nell’improbabile circostanza in cui avessi risposto, le avrei detto che, se i diplomatici africani non erano diplomatici africani, nulla prova che invece lei fosse lei. Mai avuta questa conversazione. È un’imitatrice. Dimostratemi che ero io. Smentitemi. Nella società dello spettacolo, vale tutto.