Quando vieni a sapere qualcosa ti rendi conto che già la sapevi, è l’altra faccia del sapere di non sapere: sapere di già sapere. Succede. Anche quando pare che così non sia. Ma così pare – che non sia – perché temi di sapere che già sapevi. (Alle volte l’attività dello scrivere mi pare che sia la stessa di un ufficio di collocamento, di avviamento al lavoro: devi decidere che lavoro far fare ai trattini di varia misura, alle virgolette, ai caporali, ai punto e virgola, alle virgole, al punto, ai due punti, ai puntini…).
«Ci avviciniamo al sapere come donne e uomini timorati», l’ho sentito dire da un esperto in manipolazione dello scibile, che presentava una stuzzicante applicazione per dispositivi mobili. Mi pare che con applicazione si intenda una decorazione, una guarnizione ornamentale, un fregio, una coccarda da cavalli, una cosa vaga e piacevole che è calcata, impressa, accollata, addossata, cucita all’abito, anche su risvolti e maniche e un po’ ovunque sul dietro e sul davanti, con compiacimento. A scuola non l’usavo, l’applicazione intendo, il ragazzo non si applicava, non era decorativo, non si appiccicava in maniera ornamentale allo scibile.
«Ma lo sanno come scrivi? Secondo me non lo sanno», lei mi dice. Da me non lo sapranno, non è possibile saperlo, le dico. Facevo dimostrazioni, facevo quegli esperimenti di scrittura, le chiedevo poi di indovinare cosa avevo scritto usando la lingua sulla sua pelle nuda. Non era facile, anzi non era possibile, il filo del discorso si perdeva tenue come il filo di saliva (era lo stesso filo), lo imparai sulla mia pelle (pur sapendolo già sulla sua) quando fece lei l’esperimento, scrisse poemi bellissimi, non decifrai una parola ma compresi tutta la bellezza oltre a scoprire che la bellezza non sta nel dirla, nel vederla, nell’ascoltarla, no, sta proprio dove tu non arrivi con la tua applicazione né col pensiero né con la comprensione, sta nel non trovarle un nome. Cercarlo sarebbe una perdita di tempo e una distrazione, insomma una bruttura. La bellezza non sai mai cos’è né quale sia il suo nome (si danno per questo i nomi alle persone perché, casomai belle, ci si illuda di chiamare la bellezza con quel nome: così tra esseri umani ci si arrangia).
Per tutto il resto abbiamo tutti i nomi, che sono l’impugnatura delle cose, il loro manico, così che, come si dice in gergo (c’è del vero nel gergo, c’è la praticità del vero) puoi afferrare ogni cosa. Poi, certo, tutto dipende dal gioco del tuo polso, dalla tenacia e dalla fermezza della tua stretta. Non diversamente da una caraffa, la frase si offre alla presa, non diversamente da un martello. «Hai afferrato?». Mi pare che non ci siamo spostati molto da un uso cortese e manuale della parola, cortese nel senso di corte feudale, manuale nel senso della maneggevolezza di spade con l’elsa, di mazze ferrate da stringere in modo adeguato, dell’arma manesca, di lance in resta (la resta, quell’uncino, quella parentesi orizzontale inchiavardata alla corazza toracica per poggiarci e fissare il calcio dell’asta così non scivola all’indietro quando cozza sul bersaglio, ah, l’ingegno del passato; o credevi che il cavaliere agisse a braccio libero?). «Cos’è? Vi sembro forse un po’ troppo muscolare?» dice il cuore che parla per me («Mentre io batto per lui» mi permetto di aggiungere io).
«Linguaggio è ingaggio», dove sta scritto? Su muri di palestre, laddove si tiene il certame, il combattimento poetico, su tamburi e frontoni di arene, su festoni e sigle di testa là ovunque si dia chiacchiera e distribuzione di alloro, ottimo per l’abbacchio, le castagne lesse e le fronti poetesche e letterose. Tutto è giostra. Zoccoleggiano i cavalli scalpitanti della cavalleria dello scrivere, che si schiera e sciorina tutta la baraonda araldica dei buoni propositi e delle giuste finalità a difesa dei deboli, degli oppressi, del miele pubblico. Si scrive direttamente sugli scudi, si fa sbandieramento con le pagine, si sfoggiano raffinatezze appiccicose e filanti, sibilanti finezze, liberalità e smancerie, effusioni e diffusioni di colature affettive, tenerezze sfatte in mollezze, infantilismi, lamentazioni e capricci da quel recinto puerile dal quale non s’esce (com’è che al cinema e in pittura i cavalieri torneanti mi pare sempre che siano posti come il pupo nel girello e che roteando pugnino?), e poi gli scontri finalmente, finalmente i vari cozzi, gli urti, le belle lisciate e le busse con picche e ripicche, risentimenti, ma soprattutto quelle schegge di stizza, la stizza, la ridicola stizza, non dimenticando le alabarde per mantenere le distanze pur colpendo o cercando di farlo, e le chiassose cadute dall’arcione, e la viltà che uccide, e scontri tra corazze che suonano come crolli di pentolame casalingo, ma anche premure, attenzioni a non turbare, timorate delicatezze, convenienti altruismi, impressionismi stucchevoli come ninfee piattamente stagnanti, e avanti così. (Sono andato lungo anch’io).
E poi stemmi a più sfondi, a scacchiera per prossime mosse, a più tinte e campi, a palle e a spigoli, a belve e fiori. Sugli stemmi e sugli scudi, ti rendi conto, è scorsa di già tutta l’arte pittata: naturalismi, verismi, onirismi, espressionismi, surrealismi, parecchi cubismi, alquanti rombi e rombismi, losanghe e bestialità, grifi rostrati, leoni rampanti, pantere passanti, chimere, e ammaccature sulle superfici convesse, anche fenditure, tagli, crepe, cretti e ustioni da impatto, l’arte moderna. La lontana età moderna, e non è più quel tempo. Come dice il poeta: «I rapporti tra i sessi intercorsero tra la Caduta di Costantinopoli e il Congresso di Vienna, un po’ troppo presto per me» (per non fare il misterioso, il poeta è Larkin, quasi Larkin, il notissimo autore di due poesie, anche tre, e me ne viene in mente anche una quarta, un bel poeta in breve).
Insomma, il giostrare. Ecco, vedi di afferrare come si deve e fai roteare. No, non si esce dalla giostra (l’ho già detto che i personaggi entrano nel romanzo come adolescenti in un luna park?), non ne usciamo dal torneare (quel tornare provenzale). Non avendo più la faccia né lo stomaco per difendere qualcosa non sapendo cosa, difenderemo un colore, una pezza sfilacciata, un velo dipinto, una sfumatura slavata di acquerello, una gocciolatura, una lacrimuccia che faremo fuoriuscire ad arte dalla rima palpebrale. Se non la finisci con questo prologo (è un prologo?) mi dici quando comincio io romanzo?
(10 continua)
Questa la decima puntata di un romanzo in corso del quale non sa nulla, neanche il titolo. Qui si può leggere la nona. Qui l’ottava. Qui la settima. Qui la sesta. Qui la quinta. Qui la quarta. Qui la terza. Qui la seconda. Qui la prima.