Il direttore mi chiama e mi dice che sto perdendo lettori. La lettrice (è solo una, ho una sola lettrice) resiste ma sto perdendo lettori. Evadono. Lettura d’evasione significa non leggere me. Eppure sono così evasivo (evadente, evadescente?), inizio una frase a Ischia e la concludo a Procida, che non sono tanto distanti, Ischia e Procida, ma c’è di mezzo il mare. Sto scrivendo distratto perché cerco di imparare a scrivere e parallelamente cerco di ricordare il motto, lo volevo mettere in testa a tutto (scrivere ha qualcosa a che vedere con le rette parallele, le righe di quinta, del foglio protocollo?).
Ah, sì, eccolo, non posso metterlo in principio perché mi viene in mente adesso e non è un motto, è un modo di dire, un idiomatismo, uno di quelli facilmente traducibili e comprensibili in altra lingua, non voglio creare problemi ai traduttori. È anche un detto turistico. Eccolo. Per dare l’idea della distanza tra una camicia lasciata cadere con desiderosa fretta all’ingresso e i pantaloni scalciati ai piedi del letto dopo aver percorso saltellando un corridoio, ecco, per dire la distanza tra le cose ma anche tra le persone (è uguale) si dice: una a Ischia e l’altra a Procida. La camicia a Ischia, i pantaloni a Procida. Il direttore mi chiama a Ischia per dirmi che sto perdendo lettori, io sono a Procida ma non cambia nulla perché mi chiama al cellulare (il progresso è demolizione dei modi di dire ma senza ricostruzione). Cosa devo dire? «Bene così, anzi meglio» (e lo direi per accrescere: sono un appassionato delle pose estreme e gaudenti sempre, anche nello sfacelo).
Questa devo raccontarla, è successa adesso, mo’ mo’, in diretta letteraria. Qui accanto, contiguo, c’è un cantiere in corso (è un cantiere romanzesco), martelli pneumatici, frullini, picconi, mazzuoli, maleppeggio (demolizioni e ricostruzioni: si abbattono mura per poi ritirarle su, mah: è il gioco di prestigio degli ultimi tempi), elevatori telescopici di cestelli con dentro i lavoratori sulle alte facciate (come parole sul foglio protocollo in posizione eretta; immagino le pagine sempre verticali come pareti). Ha piovuto fino a poco fa, ha smesso ma il cielo è nero, pioverà. Un uomo con l’elmetto giallo entra nel cesto (un altro a terra è alle manovre di sollevamento) e sbraita salendo: «… come sempre… sempre così… chiamavo al telefono il principale e gli dicevo qua diluvia, e il principale mi diceva qua il tempo è bellissimo, non c’è problema, con questo tempo si lavora… capito?… dove stavo io diluviava e lui stava, per dire, a Padova, e a Padova faceva bel tempo anche per me… era democratico il principale, generoso… capito com’è?… manco lo chiamo più… ché ogni volta che lo chiamo, da lui fa bel tempo… non lo chiamo più… così magari piove pure a Padova… ».
Ho sentito tutto (ha davvero detto Padova), qui il luogo è una cassa acustica meglio che a teatro, e niente batte in gittata la voce operaia. Nessuno ci crederà che è successo adesso. Ma è successo davvero adesso. Aspettavo che succedesse qualcosa per fare l’esperimento. Quello che accade nei romanzi, dove accade e quando? Oppure: quel che accade nei romanzi si può dire che accada nel momento in cui lo scrivi? È più facile credere che accada nel momento in cui lo leggi, magari due secoli dopo, anche due millenni. Ma così non è, così pare ma non è. Né l’uno né l’altro tempo, né quando scrivi né quando leggi. Il tempo è mai. È più facile che, al di là di qualche fatterello accaduto come spunto, è più facile che non accada mai quello che è scritto nei romanzi. Anzi, il bello sta proprio lì (dove?).
Se scrivi che la cosa accade nel momento in cui scrivi, è difficile che ti si creda (forse nella corrispondenza, nel carteggio, nelle lettere, ma anche lì, insomma, la distanza è un incentivo all’invenzione). Pare (ma solo pare) che accadano nel passato remoto le cose romanzesche, nel serio, severo, posato, garante passato (superiore e tollerante: gli fa il solletico al passato il romanzetto). Le pagine scritte in tempo presente sembrano arrotolate e infilate in una bottiglia che viaggia galleggiando e dondolando così che quel tempo presente e naufragato provoca un certo mal d’onda se non una nausea a chi legge (è davvero così ondivago il presente). Chi legge sa senza saperlo (certe cose non si sa di saperle) che «quello che accade nei romanzi accade solo nei romanzi» (questa frase se si specchiasse vedrebbe sé stessa riflessa così, fisionomia e acconciatura e truccatura: «quello che accade nei meandri accade solo nei meandri»).
E non accade nel momento in cui scrivi, e nemmeno nel momento in cui leggi. Accade su quelle righe laggiù. Le righe scritte sono sempre lontane, sono un profilo d’orizzonte, e tutto accade su quel filo disteso con appesi all’insù i galleggianti miraggi che ci chiedono comprensione, e noi li raggiungiamo con lo sguardo (mi pare che le righe scritte siano le righe tracciate dal vento sulle sabbie desertiche che trovano requie e riva all’orizzonte), e chi legge è il soggetto che sopravvive, e per questo legge, per questa soddisfazione, per quest’unico senso: leggo quindi io soltanto ho raggiunto il posto, ho percorso tutti i righi, e l’ombra del mio sguardo è quella di una fila di cammelli (gli alti colli delle lettere longilinee, le zampe delle p e delle q, le code delle g, le gobbe vocaliche, le anse delle esse, i peduncoli della lanugine, la merda per la punteggiatura) e ho anche letto a passo lento le ultime righe perché talmente piacevole era il finale che era un piacere ritardarlo un altro po’, e questo è accaduto a me, solo io ho sentito di avere raggiunto il posto del piacere finalmente solitario.
La mia lettrice col mio libro in mano, sospeso e semichiuso e con un dito in mezzo: che assoluta realizzazione di egotismo, il suo per lei, il mio per me. Per questo si scrive? Per questo si legge? Per un po’ d’intimità? E i romanzi hanno sempre un lieto fine, e siamo noi quel fine. Quando a quindici anni, a cavallo di una prora, stringendo tra le mani il corno del dritto di prua, le gambe penzolanti sugli spruzzi arteriosi del mare tagliato, completamente sfaccendato progettavo “domani scriverò”, ecco, mi pareva perfetto il mio piano, e lo scrivere il più affascinante reato.
Sto perdendo lettori e la cosa mi elettrizza, perché? Mi sento Orazio con dietro un codazzo di Curiazi e io li strazio. Sono troppo scherzoso? Com’è che si fa sul serio? Aggrottando, accigliando, aggrondando come fossi un personaggio? Dimmelo tu. Non rispondere, lo dico per dire (e poi non dico a te), dico tutto per dire. Per cosa se no? Per fare? Anche il fare, da queste parti, sta tutto nel dire.
(9 continua)
Questa la nona puntata di un romanzo in corso del quale non sa nulla, neanche il titolo. Qui si può leggere l’ottava. Qui la settima. Qui la sesta. Qui la quinta. Qui la quarta. Qui la terza. Qui la seconda. Qui la prima.