Il listone dell’annoI nove, anzi dieci, dischi più belli del 2023, a insindacabile giudizio di Gommalacca

Peter Gabriel e Sufjan Stevens, certo. Ma anche i «papà tristi», ovvero i favolosi National, un grande vecchio, una band che rinasce nella tradizione, il prog rock, il quasi ritorno degli Oasis e le due più grandi cantautrici contemporanee

i/o di Peter Gabriel
Perché i/o di Peter Gabriel sia il disco dell’anno, e oltre, l’ho argomentato qui.

First two pages of Frankstein e Laugh Track di The National
Non sono mai stato un grande fan dei gruppi indie rock degli anni duemila, e non me ne vanto soprattutto da quando ho approfondito l’ascolto dei National e seguito le scorribande solitarie dei gemelli Dressner e del cantante Matt Berninger, i cosiddetti «sad dads», malinconici cinquantenni cantori del logorio della vita moderna. Si erano allontanati, i National, apparentemente senza più idee, e quindi dedicati a progetti individuali: il bellissimo disco solista di Berninger Serpentine Prison del 2020, le collaborazioni colte di Bryce Dressner con Philip Glass, Steve Reich e Sufjan Stevens, e le geniali collaborazioni di Aaron Dressner con Bon Iver (da cui è nato Big Red Machine) e soprattutto la favolosa produzione di Folklore ed Evermore della svolta indie di Taylor Swift. Detto questo, quest’anno i National sono usciti non con uno ma con due dischi formidabili, con in mezzo un tour mondiale ancora in corso che in estate arriverà in Italia. First two pages of Frankstein, il primo dei due, è uno di quegli album che fai partire e non li fermi più fino a quando, come si diceva una volta, si rovina la puntina del giradischi. Ascoltate Eucalyptus, Tropic Morning News, New Order T-shirt, Once upon a poolside, ma in realtà tutte, dalla prima all’ultima, sono canzoni che raccontano di separazioni non proprio convinte e di depressioni cosmiche, allietate da Sufjan Stevens, Taylor Swift e Phoebe Bridges. Il secondo disco, Laugh Track, è altrettanto coinvolgente, con il momento più alto in Weird Goodbyes con Bon Iver.

Javelin di Sufjan Stevens
Perché anche Javelin sia il disco dell’anno ne ho scritto qui.

Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd di Lana del Rey
Sembrava di plastica, Lana del Rey. Sembrava un prodotto perfetto dello show biz americano. Sembrava che sarebbe durata meno di una stagione. E invece ormai sono anni che non sbaglia un disco, almeno da Lust for Life, fino a quest’ultimo dal titolo immaginifico come ormai le piace fare da qualche tempo. Oggi Lana del Rey è una delle più raffinate cantautrici del mondo, la Joni Mitchell dei nostri tempi.

Keep your courage di Natalie Merchant
La Regina è tornata ai livelli massimi di Tigerly, il disco d’esordio del 1995 pieno di belle canzoni a cominciare da Carnival, una delle migliori fotografie di New York mai messe in canzonetta. Keep Your Courage non è da meno, con la sua voce incredibile in primo piano e un rigore musicale che non ha eguali. Un disco di canzoni perfette.

Council Skies di Noel Gallagher
Forse gli Oasis tornano insieme, forse tornano solo nella fantasia di Liam Gallagher, ma chi se ne frega: gli Oasis sono qui, vivi e vegeti, nel disco di Noel, il fratello introverso e stronzo. Cosa sono, altrimenti, Easy Now e Dead to the world, se non irresistibili canzoni dei migliori Oasis?

Seven Psalms di Paul Simon
L’autoepitaffio di Paul Simon, uno dei più grandi creatori di melodie sotto forma di canzoni della storia del pop rock, consiste in una sola canzone lunga 33 minuti che è un flusso di coscienza da lasciare senza fiato. 

The Harmony Codex di Steven Wilson
Da solo o con i Porcupine Tree (autori, l’anno scorso, di uno dei migliori dischi del 2022), Steven Wilson ha tenuto alta la bandiera della musica progressive, senza concedersi facili nostalgie. È musica contemporanea, elettronica, certo con echi crimsoniani (Staircase) e floydiani (Rock bottom) e genesiani (Time is running out), ma è questo il bello.

Songs of surrender di U2
Gli U2 hanno rielaborato da cima a fondo il loro inimitabile canzoniere contemporaneo, sprezzanti del pericolo di poter rovinare alcune delle più belle canzoni della storia della musica popolare, potenzialmente commettendo un reato punibile ai sensi della Convenzione di Ginevra. Invece è successo che le canzoni della nostra adolescenza è come se non fossero state violate, perché effettivamente erano inviolabili, e sono giustamente rimaste epiche e favolose nei vecchi ellepì e nelle audiocassette di una volta, ma con un miracolo inspiegabile con la razionalità sono diventate canzoni nuove, certo riconoscibili perché squarciagolate per decenni, ma vive e sempre in the name of love.

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