Nel centrodestra c’è forte apprensione sull’avvitamento dello scontro tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini per la candidatura alla presidenza della Sardegna. È un’apprensione fondata e va oltre la semplice preoccupazione di routine, perché tutti, da quelli parti politiche, sanno che non si tratta solo di una questione locale. E nemmeno tanto un problema di effetto domino tra candidature nelle varie Regioni dove si vota tra febbraio e la primavera. Tutti sanno che il nodo è ben più intricato e pericoloso. Come si vede a occhio nudo, si tratta della supremazia nella coalizione che i numeri e il ruolo istituzionale attribuiscono alla premier, ma il leghista non si dà per vinto perché una cosa è essere in minoranza, un’altra diventare un vassallo. Il vero rischio è che Meloni voglia strafare e umiliare l’alleato, quando invece l’esperienza del passato dimostra che i leader più longevi sono stati coloro che coinvolgevano i partiti più piccoli, anzi si sacrificavano per gli altri.
Ma questo era il passato remoto della scuola democristiana e in parte quello più recente di Silvio Berlusconi, che a quella scuola in un certo senso si ispirava per tenere vivo il centrodestra. Tranne poi scivolare, fare l’imprenditore prestato alla politica e sbagliare. Decidendo alcune questioni da solo e salendo sul predellino della sua auto per annunciare il Partito delle libertà. E infatti quella fu l’occasione della prima vera rottura con i centristi Udc di Pier Ferdinando Casini, nonché l’inizio dei problemi successivi con Gianfranco Fini.
Il metodo democristiano ha consentito oltre cinquant’anni di potere. I democristiani erano un’altra generazione e quelli erano i tempi in cui l’opposizione comunista non poteva andare al governo. Non c’era neanche l’idea dei leader politici di farsi eleggere direttamente dal popolo. Meloni invece sta costruendo pezzo dopo pezzo, in un azzardato slalom tra regionali, europee e occupazione del potere, la sua premiership. Non solo una riforma costituzionale, ma nella pratica politica che necessita di portatori d’acqua al suo mulino e la presa crescente di pezzi di potere, anche comunicativo. Matteo Salvini e Antonio Tajani sono funzionali al suo progetto a medio termine, ma chi comincia a opporsi con decisione è il capo leghista, il quale non perde occasione per tirare calci. Come ha fatto ieri dall’aula bunker di Palermo dove, nella sua “arringa difensiva” nel processo Opens Arm, è arrivato a dire che quando c’era lui al Viminale i migranti non morivano in mare.
Una bufala, ovviamente, ma funzionale a smentire perfino il suo governo, il suo ex capo di gabinetto Matteo Piantedosi, oggi su quella stessa poltrona che il leghista delegittima. Soprattutto funzionale a tirare un cazzotto in faccia a Meloni, che ha confessato di considerare le morti in mare di Cutro il momento peggiore del suo primo anno a Palazzo Chigi. Come se con quel dramma Salvini non c’entrasse alcunché. Un assurdo in termini logici e politici, ma è il segno di una battaglia senza esclusione di colpi e di bugie senza pudore.
Ora, per la sinistra che Meloni sbagli è auspicabile. Capire se poi riesca a sfruttare divisioni e rotture ce ne passa. Per quelli del centrodestra ovviamente è terribilmente deleterio. Ha suonato il campanello d’allarme Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale che con Palazzo Chigi ha un filo diretto, essendo autore di un libro intervista con la stessa Meloni. E cosa dice sbalordito Sallusti nell’editoriale di ieri? «Pensare che il centrodestra possa andare in tilt per scegliere il candidato governatore della Sardegna è roba da matti: gli elettori assistono smarriti, la sinistra gongola, la stampa nemica giustamente ci sguazza». Attenzione, scrive Sallusti, questa frattura potrebbe essere «il primo vero inciampo sul cammino di una maggioranza che ha di fronte un cammino lungo e difficile. Esageriamo? Potrebbe essere, ma non credo. Un solo granello di sabbia può inceppare rovinosamente anche il meccanismo perfetto e chi segue la politica da tanti anni potrebbe fare un lungo elenco di palle di neve che sono diventate inaspettatamente slavine». Per Sallusti, quando si apre uno spiraglio non si sa mai chi potrà infilarsi.
Francamente, che si possano infilare Giuseppe Conte o Elly Schlein, Carlo Calenda o Matteo Renzi appare improbabile. L’implosione della maggioranza è auspicabile, ma che Salvini possa perseverare nell’errore, come ha fatto con il governo gialloverde, sarebbe veramente diabolico. A indurlo alla follia però potrebbe essere la stessa Meloni, se gli frega la Sardegna, il prossimo anno il Veneto, se non gli dà il terzo mandato per Luca Zaia, se si candida alle europee, cannibalizzando la Lega.
Se invece sarà democristianamente saggia non dovrebbe candidarsi, magari approfittando del fatto che Schelin alla fine accolga il consiglio di Romano Prodi, non si candidandosi nemmeno lei. Ma la premier dovrebbe sacrificare il suo partito per la coalizione. Al momento lei non ragiona così, pensa che il ferro si batte finché è caldo, mettendo in conto la ribellione.
Ma fino a che punto ci potrà essere questa ribellione? Dove va Salvini? Provoca una crisi di governo? Macché. La colla del potere lo tiene fermo sulle poltrone, con tutti quei miliardi del Pnrr da spendere, poi. Ma c’è un però: se alla fine è in ballo la sua sopravvivenza, con tanto di umiliazione della propria leadership, il testosterone da Papeete potrebbe scappare dalle mani. È quello che terrorizza Sallusti e i fan del governo. Signori e signore, che lo spettacolo abbia inizio.