Un progetto di Voxeurop in collaborazione con Eurozine indaga attraverso sei saggi il futuro dell’Europa, rileggendo alla luce del conflitto scatenato dall’invasione russa dell’Ucraina uno storico intervento del 2003 di Jürgen Habermas e Jacques Derrida. Qui si può leggere il primo intervento,qui il secondo, qui il terzo, qui il quarto, qui il quinto.
Jean Monnet, diplomatico francese che fu tra i padri fondatori dell’ordine europeo del Dopoguerra, scrisse nelle sue memorie che «l’Europa sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi».
Nel 1976, quando queste parole furono scritte – e poi nei decenni successivi – la visione di Monnet faceva eco al passato, più che al presente. Il progetto europeo era nato dalle ceneri delle crisi più devastanti del continente: il totalitarismo e due guerre mondiali. La soluzione a queste crisi – la messa in comune della produzione di carbone e acciaio tra ex nemici – è stata l’origine del percorso di integrazione europea.
La Comunità del carbone e dell’acciaio e la conseguente Comunità economica europea, poi la Comunità europea e infine l’Unione europea avevano anche altri scopi, meno edificanti, tra cui un atterraggio morbido per gli imperi europei in disfacimento e in fase di decolonizzazione. Ciò non toglie che l’integrazione europea fosse anche, e soprattutto, un modo per garantire che la guerra mondiale non si ripetesse.
Dagli anni Settanta ai primi anni Duemila, l’evoluzione dell’Europa è sembrata seguire un’altra logica. Lo sviluppo del mercato unico, quello dell’Unione monetaria e quello dell’area Schengen non potevano certo essere considerati una soluzione alle crisi. Anzi, gli allargamenti sono stati finalizzati a cogliere le opportunità: dalla democratizzazione dell’Europa meridionale negli anni Ottanta, alla prosperità maturata con l’allargamento al Nord degli anni Novanta, alla riunificazione dell’Europa negli anni Duemila, dopo la fine della Guerra fredda.
Crisi che erano politiche
In questo periodo, più che una soluzione alle crisi, il “metodo Monnet” è stato associato a teorie funzionaliste che vedevano nell’integrazione (politica) il naturale telos della cooperazione tecnica ed economica. I Paesi europei si trovarono sempre più spesso ad affrontare sfide, il cui superamento sembrava impossibile senza il coinvolgimento di istituzioni sovranazionali. Le “crisi” a cui la Cee, la Ce e infine l’Ue hanno portato soluzione non erano vere e proprie crisi, ma problemi politici che potevano essere affrontati meglio attraverso l’integrazione.
Le parole di Monnet sono tornate a risuonare nel loro vero significato solo molti anni dopo. Dalla metà degli anni Duemila, l’Ue si è trovata in mezzo a vere e proprie crisi: la crisi del Trattato costituzionale del 2005, la crisi finanziaria globale del 2008 che si è riversata nella crisi dell’Eurozona nel 2011-2013, la crisi migratoria del 2015, il referendum sulla Brexit del 2016 e il rischio che questo scatenasse un effetto domino. E, infine, la pandemia. E poi è arrivata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ognuna di queste crisi ha messo in pericolo la sopravvivenza del progetto europeo causando paralisi, sfiducia, divisione e perdita di solidarietà.
In ciascuna di queste crisi, Monnet è stato messo alla prova. In casi come quello della crisi migratoria, il risultato è un fallimento: l’Ue ha fatto pochi progressi nella costruzione di una politica comune in materia di asilo e migrazione.
In altri casi, l’Unione si è arrabattata, uscendo dalla crisi dell’Eurozona grazie a un’unione bancaria non ancora realizzata. In altri ancora, come per la crisi del Covid, l’Ue ne è uscita bene, riuscendo a gettare le basi di un’unione sanitaria e, soprattutto, creando una nascente unione fiscale attraverso il piano NextGenerationEU.
Oggi la guerra infuria di nuovo sul continente europeo. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia rappresenta la minaccia più mortale per la sicurezza europea dai tempi della Seconda guerra mondiale. L’Ue sta reagendo politicamente, economicamente e in termini di politica energetica, sicurezza e difesa. Ma il principio di Monnet tiene? Se sì, che cosa ci dice sulla rinascita dell’Europa?
La fine di un’illusione
Nonostante il rapporto con la Russia sia tradizionalmente una delle questioni più divisive in Europa, l’Ue ha mantenuto una risposta unitaria. Gli Stati membri dell’Ue hanno concordato all’unanimità undici pacchetti di sanzioni contro la Russia, i più significativi dei quali sono arrivati durante i primi mesi di guerra. In seguito, le misure sono rallentate: dopo aver sanzionato la finanza, la tecnologia, il carbone e il petrolio, aver sequestrato beni pubblici e privati, aver bandito individui responsabili, aver fissato un tetto ai prezzi dell’energia e aver ridotto le importazioni di gas russo a uno stillicidio, rimane poco da sanzionare. L’attenzione è ora rivolta a colmare le lacune e a lavorare su un’attuazione efficace.
Questo ha fatto emergere alcuni disaccordi che devono ancora essere appianati. Ma, per quanto riguarda il caso politicamente più tossico – l’Ungheria di Viktor Orbán – l’Unione ha sviluppato delle strategie per contenere i danni. Le manovre di Orbán sono fallite e la Commissione europea ha utilizzato una nuova forma di condizionalità economica legata allo Stato di diritto. Nel dicembre 2022, la Commissione ha trattenuto 22 miliardi di euro di fondi di coesione per l’Ungheria finché questa non rispetterà i principi relativi all’indipendenza giudiziaria, alla libertà accademica, ai diritti LGBTQI e al sistema di asilo.
A oggi, l’Ue è politicamente unita nei confronti della guerra in Ucraina e le divisioni non si si sono acuite, anzi, si sono ridotte. Nei primi mesi della guerra, alcuni Paesi dell’Europa occidentale – in particolare la Francia – hanno scatenato le ire degli europei del Nord e dell’Est insistendo sui negoziati e sulla necessità di non umiliare Vladimir Putin. Ma sono pochi a Berlino, Parigi o Roma coloro che oggi credono nel potenziale dei negoziati e del cessate il fuoco, per non parlare di un accordo di pace con la Russia.
Questa unità non è limitata all’Ue. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha migliorato il rapporto non esattamente disteso con il Regno Unito post-Brexit; ha inoltre inaugurato un’unità transatlantica senza precedenti, nonostante le acute differenze riguardo alla politica commerciale e industriale; e, infine, ha creato coesione all’interno del G7 e con altri Paesi che hanno una visione comune, come l’Australia e la Corea del Sud.
Il contrasto tra la risposta dell’Europa alla guerra in Ucraina e quella che c’è stata in passato in occasione di altre guerre non potrebbe essere più netto. Esattamente vent’anni fa, nel 2003, il mondo fu scosso da una guerra lanciata da un’altra superpotenza nucleare: l’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti. Le onde d’urto di quella guerra si sentono ancora in tutto il Medio Oriente. A livello internazionale, la guerra in Iraq sarà probabilmente ricordata come l’inizio della fine della “pax americana” e dell’egemonia globale degli Stati Uniti.
Come l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, l’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti era illegale e giustificata da menzogne: in Iraq, l’esistenza di armi di distruzione di massa, in Ucraina, l’imminente espansione della Nato e un regime nazista. E, come la Russia, gli Stati Uniti miravano a un cambio di regime, ma non a occupare e annettere permanentemente il territorio iracheno.
Tuttavia, a differenza dell’invasione russa dell’Ucraina, l’invasione statunitense dell’Iraq ha diviso e paralizzato l’Ue. L’Unione si è divisa tra la Francia e la Germania, che hanno guidato l’opposizione contro la guerra, e il Regno Unito, l’Italia e la Spagna, che l’hanno sostenuta. La divisione si è estesa oltre l’Europa occidentale. Proprio mentre i Paesi dell’Europa centro-orientale, dopo aver firmato il Trattato di adesione, si preparavano a entrare nell’Ue l’anno successivo, il segretario alla Difesa statunitense Donald Rumsfeld parlò di una divisione tra “vecchia” e “nuova” Europa, quest’ultima schierata con gli Stati Uniti.
Le opinioni pubbliche europee, soprattutto quelle dell’Europa occidentale, hanno manifestato il loro disappunto di fronte all’abuso di potere americano e si sono mobilitate a milioni nelle capitali europee. Le proteste hanno spinto il filosofo tedesco Jürgen Habermas e quello francese Jacques Derrida a sostenere la necessità di uno spazio pubblico europeo, articolando una visione europea in cui – in contrasto con il modello neocon statunitense – avrebbe prevalso il potere morbido, e dove il multilateralismo e il diritto internazionale avrebbero prevalso sul potere duro, sull’unilateralismo e sull’idea che il più forte vince. Due decenni dopo, la lezione di fronte all’invasione russa dell’Ucraina è opposta.
La guerra ha ricordato agli europei che non vivono su Venere, come lo studioso americano Bob Kagan ironizzava due decenni fa. Anche se non viviamo neppure su Marte, viviamo sul pianeta Terra, che è un luogo pericoloso. La guerra ha spazzato via il sogno – e forse l’illusione – di uno spazio libero e aperto, da Lisbona a Vladivostok, in cui il soft power, le istituzioni multilaterali e il diritto internazionale avrebbero rappresentato le fondamenta di una sicurezza condivisa.
L’ambizione di costruire un’architettura di sicurezza europea insieme alla Russia è stata stroncata dalla dura verità in base alla quale, almeno per il momento, la sicurezza europea deve essere costruita contro la minaccia russa.
Il momento strategico dell’Europa
Tutto questo ha portato a tre conclusioni principali per l’Europa, tutte in netto contrasto con quelle tratte all’indomani della Guerra in Iraq. In primo luogo, l’allargamento dell’Ue (e della Nato) è tornato nell’agenda strategica europea. Nel 2003, la decisione dell’allargamento era già stata presa. Si è concretizzata un anno dopo ed è stato completata nel 2007 con l’ingresso della Bulgaria e della Romania. Da allora, l’allargamento si è praticamente fermato. A eccezione della Croazia nel 2013, nessun altro Paese è più entrato nell’Ue per quasi due decenni.
Il processo di adesione è proseguito formalmente nel caso dei Balcani occidentali e della Turchia, ma caratterizzato da una doppia farsa: i Paesi candidati hanno finto di riformarsi e l’Ue ha finto di integrarli. L’esito era prevedibile: la democrazia e lo Stato di diritto hanno vacillato, lo sviluppo economico è andato a rilento, i processi di pace si sono arenati e la Russia e la Cina sono entrate in scena.
Ma l’Unione era troppo presa dalle crisi esistenziali successive per prestare attenzione a quello che succedeva. E, va detto che, quando la democrazia e lo Stato di diritto hanno iniziato a regredire in Ungheria e Polonia, molti in Europa occidentale hanno iniziato a credere (silenziosamente) che forse l’allargamento a Est era stato un errore.
L’illusione che la “vecchia Europa” potesse ripiegarsi su se stessa e ignorare le turbolenze al di là dei suoi confini si è infranta con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Da un giorno all’altro è diventato chiaro che la stabilità, pur garantita all’interno dell’Ue e della Nato, non poteva essere data per scontata dall’altra parte della “frontiera”.
Non sorprende che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky abbia chiesto l’adesione all’Ue tre giorni dopo l’invasione del suo Paese da parte della Russia. Ora l’Ucraina e la Moldova sono riconosciute come Paesi candidati, e anche la Georgia è un potenziale candidato. Nei Balcani occidentali, l’Albania e la Macedonia del Nord hanno recentemente avviato i negoziati di adesione. La Bosnia-Erzegovina è stata riconosciuta come candidata e il cambio di leadership a Podgorica potrebbe ridare slancio all’allargamento verso il Montenegro.
Tutto questo non rappresenta ancora un rilancio della politica di adesione dell’Ue, e restano ancora molti problemi da risolvere, il più urgente dei quali è il drammatico deterioramento delle relazioni tra la Serbia, candidato di lungo periodo, e il Kosovo, candidato potenziale. Entrambi i Paesi sono in attesa di profonde riforme. Anche l’Ue dovrà rinnovare le proprie istituzioni, le procedure decisionali e le politiche in settori chiave come l’agricoltura e la coesione. Ma è sempre più evidente che il mancato allargamento ha un costo estremamente elevato. La guerra ha dimostrato che il mantenimento dello status quo rappresenta un rischio intollerabile per la sicurezza europea.
In secondo luogo, a differenza del 2003, oggi in Europa cresce la convinzione che il potere “duro” conti. La guerra ha fatto lievitare i bilanci militari in tutta Europa, dalla Zeitenwende (“cambiamento d’epoca”) tedesca da 100 miliardi di euro, all’aumento più disomogeneo negli Stati dell’Europa settentrionale e orientale. La spesa per la difesa degli Stati membri dell’Ue dovrebbe crescere di 70 miliardi di euro nei prossimi tre anni, avvicinandosi così all’obiettivo della Nato del 2 per cento del Pil. Dopo aver tradizionalmente considerato la difesa una parolaccia, le istituzioni dell’Ue hanno ora mobilitato un Fondo europeo per la pace per sostenere la campagna ucraina e hanno approvato la più grande missione di addestramento delle forze armate ucraine.
A partire dal marzo 2023, l’Ue e i suoi membri hanno fornito collettivamente 12 miliardi di euro di assistenza militare all’Ucraina, per un totale di 67 miliardi di euro, compresi gli aiuti economici. L’Ue ha anche sviluppato un meccanismo per l’approvvigionamento di munizioni per l’Ucraina, impegnando a maggio una prima tranche di 2 miliardi di euro.
Infine, e paradossalmente, mentre la guerra del 2003 ha spinto gli europei a prendere le distanze dagli Stati Uniti evitando così il potere “duro”, nel 2023 l’Europa è diventata più dipendente da Washington, in maniera drammatica e questo, nonostante si sia concentrata più che mai sul diventare un attore di difesa credibile. In tempi di pace in Europa, gli sforzi europei nel campo della difesa sarebbero stati letti come una prova concreta dell’autonomia militare strategica europea in via di formazione. In tempi di guerra, è vero il contrario.
Senza il sostegno militare degli Stati Uniti all’Ucraina, Kyjiv sarebbe caduta, mettendo in un rischio senza precedenti l’intero continente europeo. E mentre gli europei esauriscono le loro scorte inviando armi all’Ucraina, le sostituiscono con tutto quello che è disponibile: la maggior parte delle volte si tratta di materiale americano, non europeo. Questo non significa che i progetti industriali militari europei si siano fermati del tutto. Tuttavia, in tempi di guerra, la maggior parte della spesa europea per la difesa non è destinata a progetti futuri, ma a soluzioni sul breve periodo. Il risultato è che, in termini relativi, la dipendenza europea dall’industria della difesa statunitense sta aumentando.
Ed è una cattiva notizia per l’Europa, sia a Est sia a Ovest. Le relazioni transatlantiche non erano così forti da anni, ma la situazione potrebbe cambiare velocemente. Se un candidato Repubblicano dovesse vincere le elezioni presidenziali statunitensi del 2024, l’impegno degli Stati Uniti nei confronti dell’Ucraina e della sicurezza europea potrebbe venir ridimensionato.
Indipendentemente da chi vincerà le prossime elezioni presidenziali americane, la maggiore dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti si tradurrà probabilmente in una minore capacità di disegnare un proprio cammino nel mondo. Sebbene le opinioni europee e statunitensi siano ampiamente convergenti – soprattutto per quanto riguarda la Cina, verso la quale gli atteggiamenti europei si sono irrigiditi dopo la pandemia – non sono identiche. La crescente dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti in materia di difesa può significare che la sua capacità di definire una posizione indipendente nei confronti della Cina si è notevolmente indebolita.
Gli europei non possono invertire rapidamente questa situazione, che avrebbe dovuto essere affrontata molti anni fa. Il senso di impotenza può anche essere una delle ragioni per cui, politicamente, si continua a evitare la questione. Ma evitare il problema non lo fa scomparire. Piuttosto, è qualcosa che gli europei, a Est come a Ovest, dovrebbero discutere in maniera franca.
In questo senso, almeno, l’appello di Habermas e Derrida per uno spazio pubblico europeo è attuale oggi, proprio come vent’anni fa.
Pubblicato in collaborazione con Voxeurop.eu