Nanni, serve un ampliamento della scena «centonovanta paesi». Nanni, serve lo sbeffeggiamento, dopo il turning point e tutte le altre istruzioni di sceneggiatura per piattaforma che hai irriso nel “Sol dell’avvenire”, d’una cosa cui scioccamente non avevo fin qui pensato.
L’ho scoperta da un video su Instagram, cioè nel posto in cui s’informano le più ignoranti delle ignoranti, e già per quello mi meriterei gli schiaffoni di “Palombella rossa”. Ma poi vado avanti e la situazione peggiora.
Insomma mi compare questo video, che è un pezzettino d’un podcast. Credevo che il modo più ignorante d’informarsi fossero i podcast, gente che ascolta le fiabe della buonanotte perché a leggere s’affatica, e invece eccoci qua, noi che neanche i podcast: gli estratti d’un minuto sui social.
(Non ricordo chi, tempo fa, ha scritto su qualche social che facciamo tenerezza noialtri che ci ostiniamo a scrivere libri in un mondo in cui, se posti un video di tre minuti in cui a un certo punto c’è un colpo di scena, devi riempire le didascalie di raccomandazioni perché venga guardato fino alla fine, e sperare in un pubblico che, mentre considera tre minuti intollerabilmente lunghi, butti un occhio sulle didascalie e decida di fare questo sacrificio).
Insomma mi appare questo minuto d’un podcast che si chiama “The rest is entertainment”, e c’è Marina Hyde, un’editorialista del Guardian, che dice che le piattaforme hanno una nuova richiesta per gli sceneggiatori, hanno una nuova indicazione per fare prodotti a misura del pubblico più imbecille che abbia mai popolato questo pianeta.
«Non è abbastanza second screen». Non è una cosa che puoi guardare giocando a pallini, scrivendo messaggi agli amici, forse addirittura guardando un altro filmato di qualcos’altro da qualche altra parte. Perciò, dice Hyde, le cose che troviamo sulle piattaforme sono sempre più didascaliche, ripetono gli snodi di trama, rimarcano i dettagli, mancano giusto dei lampeggianti che dicano: ehi, questo è importante.
Ma lo dice perché è inglese, noialtri di qui siamo abituati agli sceneggiati di Rai 1, lo sappiamo che se c’è un dettaglio importante c’è uno zoom, siamo abituati a essere trattati come i rincoglioniti che siamo. Non è il didascalismo, il problema. Il problema sono io.
Sono io che ho scoperto di non essere più capace di guardare una cosa alla volta. Tempo fa ho visto un film che stava per uscire proiettato per chi ci aveva lavorato in una saletta minuscola. Non volevo farmi vedere dalle altre persone mentre smanettavo sul telefono, l’ho lasciato in borsa, e per tutta la visione ero talmente compiaciuta di me stessa e del mio essere persona seria che non smanettava sul telefono che non ho capito niente del film, ma niente nientissimo.
L’ho capito, quel film, solo quando è arrivato su una piattaforma, e ho potuto vederlo mettendolo in pausa quaranta volte, rispondendo al telefono, girando il sugo, cercando gli orari dei treni, e frammentando l’attenzione in modi sempre più nevrotici.
Altro tempo fa ho visto un altro film che stava per uscire, in una sala piena di gente vestita a festa, col servizio di sicurezza che controllava che non piratassimo il film come accade alle proiezioni mondane. Non ci avevano vietato il telefono, ma si erano raccomandati di non fare foto e video. Essendo io ferma a un secolo in cui i telefoni non facevano foto, non m’è parso un problema.
Ma, dopo mezz’ora che guardavo i social indefessamente, il tizio del servizio d’ordine s’è avvicinato per dirmi qualcosa tipo: anche meno.
Vergognandomi moltissimo ho messo via l’attrezzo, ma dello schermo su cui mi sono concentrata da quel momento in poi, quello del cinema, non so niente. Buio totale sulla seconda metà del film, vai a sapere se perché senza distrazioni il mio cervello non funziona più, o perché ero compiaciuta del mio aver messo via il telefono ed essere una persona perbene e colta e concentrata e seria, dal mio essere il Gaber del “Comportamento” («Quando invece sto leggendo Hegel mi concentro, sono tutto preso: non da Hegel, naturalmente, ma dal mio fascino di studioso»).
Qualche settimana fa Matt Zoller Seitz, critico del New York Magazine, ha scritto dei tweet scandalizzati sull’andare a vedere “Dune” e notare persone che dall’inizio alla fine spippolano il telefono. Neppure rispondevano ai messaggi, trasecolava, guardavano i social, era proprio distrazione gratuita, e il film era pure bello.
Guardavo questi tweet e pensavo ha ragione, ha torto, non dipende da quanto è interessante il film, trascende il mio controllo, forse è l’evoluzione di mio padre che, quando il telecomando era una novità, cambiava nevroticamente canale appena partiva la pubblicità, e poi non rimetteva mai in tempo quel che stavamo guardando, ma almeno si era illuso di non essere succube della réclame.
Sono scissa. Da una parte sto con Matt, e con Marina, e con Nanni (che non credo si sia espresso in merito, ma essere un personaggio popolare è questa roba qui: che noialtri dal divano crediamo di sapere cosa pensi). Da una parte mi sembra che l’incapacità di guardare un film – la cosa più facile e accattivante del mondo: immagini in movimento – dica che è tutto finito. Se non sappiamo guardare, figuriamoci leggere. Per forza i podcast sono diventati la nuova Naspi: quale persona sensata, di fronte a un pubblico la cui attenzione è così fragile, penserebbe di scrivere e venire letta?
Dall’altra sono evidentemente parte del problema, sono quella che se le si scarica il telefono deve interrompere la visione del film sul computer perché senza un secondo qualcosa da smanettare si sente smarrita, sono una vegliarda con le sinapsi da ventenne che non sa concentrarsi su niente, sono un orrendo prodotto del presente, e gli schiaffi non credo si possa più senza far scoppiare uno scandalo, ma almeno un cazziatone per questo trend negativo me lo meriterei.