Italia, Europa, MediterraneoL’origine della cucina sta nel dialogo tra i popoli

Guidati dalla direttrice de Linkiesta Gastronomika Anna Prandoni, ne hanno discusso Marco Ambrosino, Paolo De Simone, Gabriel Reinteria Linda, Alberto Grandi e Andrea Cuomo

Disquisito @Mercato Centrale di Torino

Siamo in Italia, ma anche in Europa, e ancor prima nel Bacino del Mediterraneo. Un «regno del provvisorio» fluido e meticcio, che non merita di essere definito e interpretato come un insieme di spazi separati da linee tratteggiate, ma andrebbe piuttosto indagato con un approccio relativistico in cui il cibo diviene la traduzione del dialogo tra i popoli. La multiculturalità del bacino che ci ospita è stata il fulcro di uno dei talk che hanno animato Disquisito, il festival curato da Linkiesta Gastronomika e Il Post per festeggiare i dieci anni di Mercato Centrale.

La “dieta mediterranea” – codificata dai coniugi Keys verso la fine degli anni Cinquanta – non è una prerogativa italiana e neppure cilentana. Lo studio del fisiologo americano ha coinvolto in realtà tutti i Paesi mediterranei, e non con lo scopo di approfondire le origini di una specifica cucina quanto con l’obiettivo di fornire indicazioni utili a migliorare lo stato di salute dei nordamericani, prendendo esempio da popolazioni (sostanzialmente sottonutrite) che non presentavano problemi di colesterolo o patologie coronariche. «Quando nacque il concetto di “dieta mediterranea”, non venne preso in considerazione il “dove” o il “come”, ma solo il “cosa”», osserva Marco Ambrosino, chef di Sustanza e fondatore del Collettivo Mediterraneo.

La maggior parte degli italiani non ha mai veramente praticato la dieta mediterranea, intesa come proposta di sostituire i grassi animali con quelli vegetali e di mangiare più pesce e più verdure. Prima perché erano troppo poveri o troppo settentrionali, poi perché erano troppo moderni e filoamericani, e oggi – spesso – perché sono troppo pigri. Sebbene i Keys non avessero alcuna intenzione di riferirsi solo all’Italia, questo modello alimentare ha di fatto contribuito a costruire la “mitologia del cibo italiano”, della quale Alberto Grandi – professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma – si impegna a offrire una visione più disincantata, e talvolta dissacrante.

Alberto Grandi, Marco Ambrosino, Gabriel Reinteria Linda, Paolo De Simone e Andrea Cuomo @Mercato Centrale di Torino

La lettura agiografica della gastronomia italiana trova complicità nelle “ricette tradizionali”: «Sono la rovina della nostra cucina», sostiene Ambrosino, perché rischiano di cristallizzare l’identità culinaria del Paese, interrompendone quel naturale percorso evolutivo che nasce dalle contaminazioni. «Il cibo è emanazione di diversità e di scambi, a maggior ragione nel nostro bacino». Tante sono le porte del Mediterraneo, e non tutte affacciano sul mare. Milano è una di queste: ha accolto Ambrosino al 28 Posti per dieci anni e oggi accoglie anche Paolo De Simone – patron e pizzaiolo di Modus, pizzeria e gastronomia – che contrariamente allo chef procidano preferisce elaborare il meno possibile i frutti della (sua) terra cilentana, «cercando la ricetta nella natura».

In questo porto di città approdano persone provenienti da tutto il mondo, che talvolta scelgono di raccontare la propria storia attraverso il cibo. Gabriel Renteria Linda è un docente di cucina italo-messicana, nonché gestore della didattica del Laboratorio di Antropologia del Cibo di Giulia Ubaldi: «Un progetto in cui la cucina assume una valenza antropopoietica», trasformandosi in un mezzo per esplorare l’umanità nelle sue molteplici dimensioni culturali e sociali. Gli chef sono spesso immigrati di seconda o terza generazione, che si fanno portavoce dei loro luoghi di origine attraverso i piatti di casa. Le ricette diventano così un pretesto per (ri)conoscersi condividendo cibo, e accogliere la diversità come stimolo e non come limite, senza avere paura che ci privi di un’identità.

«Il sovranismo alimentare fa male all’Italia» afferma il giornalista Andrea Cuomo, soprattutto nella misura in cui il Paese sceglie di aggrapparsi alla propria tradizione gastronomica come elemento identitario. Perché in un presente di crisi e di incertezze «è più facile inventare un passato glorioso e rassicurante che impegnarsi nella costruzione di un futuro migliore». E sebbene l’Italia non sia forse pronta per essere “mediterranea”, non può fisiologicamente permettersi di non esserlo.

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