Uno dei più scontati brocardi garantisti, (in dubio pro reo), implica che sia meglio un colpevole libero che un innocente in galera. Una banalità che evidentemente deve essere sfuggita a due inossidabili garantisti come Giuliano Ferrara e Iuri Maria Prado, i quali si sono scagliati contro «il narcisismo degli avvocati» e «il mellifluo» garantismo anti-israeliano «erede del giustizialismo di Mani pulite». Oggetto dello sdegno è la richiesta del procuratore presso la Corte penale internazionale dell’Aja di incriminare il capo di governo e il ministro della difesa israeliani per reati commessi durante l’invasione di Gaza.
Secondo il parere redatto da otto autorevoli giuristi internazionali di varie nazionalità, fedi religiose e ruoli, nessuno dei quali, tranne Amal Clooney, nato in Medio oriente, vi sarebbero prove di alcuni crimini di guerra tra cui il blocco di viveri e medicinali per le popolazioni civili. Emergenza, questa, secondo Paolo Mieli ormai superata dalla costruzione di un molo di attracco (uno) da parte degli americani nel porto di Haifa.
I giuristi in questione sono: Lord Fulford, giudice d’appello in pensione, ex vicepresidente della Corte d’appello di Inghilterra e Galles ed ex giudice della Corte penale internazionale; il giudice Theodor Meron, visiting professor all’Università di Oxford ed ex presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia; Danny Friedman, avvocato, esperto di diritto penale internazionale e diritti umani; Helena Kennedy, avvocata, membro della Camera dei Lord e direttrice dell’Istituto per i diritti umani dell’International bar association; Elizabeth Wilmshurst, ex vice consigliere giuridico del ministero degli Esteri e del Commonwealth del Regno Unito.
È appena il caso di ribadire che si tratta di accuse da provare secondo le regole di un giusto processo ma ciò non basta a chi ritiene evidentemente che non si possano muovere critiche non dico allo Stato di Israele ma neanche al suo discusso governo di estrema destra.
A dire il vero i paragoni tirati fuori per confutare le critiche a Netanyahu zoppicano non poco, a partire dall’evocazione dei bombardamenti della Nato su Belgrado nel 1999. Un paragone inappropriato perché in quel caso si trattava di fermare un’aggressione e lo sterminio della popolazione civile bosniaca e delle minoranze dell’allora Jugoslavia a opera dei serbi, di quel Milosevic condannato dopo dall’Aja per i crimini di guerra.
A Gaza, scrivono gli otto giuristi, è invece in corso un conflitto a doppio livello, uno internazionale che coinvolge Israele e lo Stato palestinese di cui Gaza fa parte, l’altro “non internazionale” che riguarda lo scontro di Israele con Hamas. Sia lo Stato palestinese che Israele aderiscono alle convenzioni di Ginevra e inoltre la Palestina ha aderito allo statuto della Corte penale internazionale che dunque ha giurisdizione sui crimini commessi sul suo territorio.
L’accusa che muove il procuratore Karim Khan ai due uomini di stato israeliani è «di aver concorso a un piano comune per usare carestia e altri atti di violenza contro la popolazione di Gaza come strumenti per eliminare Hamas e assicurare la liberazione degli ostaggi nonché per infliggere una punizione collettiva alla popolazione di Gaza da loro ritenuta una minaccia per Israele».
Affamare la popolazione civile sia pure per fiaccare la resistenza di un’organizzazione terrorista è la logica della guerra come vorrebbero Ferrara e Prado oppure un crimine di guerra? O ancora, in guerra parlare di diritto e giusto processo è «una belluria» da illusi o magari un «gargarismo garantista», come direbbe Marco Travaglio? In guerra è legittimo condannare a morte degli innocenti perché i sicuri colpevoli «non la facciano franca», capovolgendo il più classico dei paradigmi garantisti o ci si deve sforzare di mantenere un principio di civiltà?
In tema di paragoni, conviene ricordare che all’indomani del secondo conflitto mondiale gli alleati non uccisero alla spicciolata con un colpo alla nuca i gerarchi nazisti ma li processarono a Norimberga, e lo stesso Israele ai tempi dei padri fondatori i boia nazisti come Eichmann li mandò di fronte a una corte. Analogamente una democrazia non può avere paura di fare i conti col suo lato oscuro come fecero gli Stati Uniti per il massacro di My Lai e la guerra in Vietnam. Furono perdite di tempo, atti di debolezza o si avvertiva la necessità di sottolineare il principio della Rule of the law come elemento essenziale della civiltà di una Stato democratico?
Di recente la Corte internazionale di giustizia, organo della giurisdizione Onu nell’ambito di un procedimento promosso dal Sud Africa contro Israele per genocidio ha ordinato all’esercito di Tel Aviv di «porre fine all’offensiva e a ogni altra azione che possa imporre alla popolazione palestinese il rischio di una parziale o totale distruzione».
Tra i quindici giudici ve n’è uno nominato da Netanyahu, il leggendario Aharon Barak, già presidente della Corte costituzionale di Tel Aviv. Egli ha firmato insieme ad altri due giudici una dissenting opinion interpretando l’ordine come mero obbligo per l’Idf di «adeguarsi nella misura necessaria agli impegni di Israele verso la Convenzione contro i genocidi». Ha negato che vi siano prove di un genocidio in atto paragonabile a quello delle minoranze bosniache o del Kosovo ma ha rivendicato la tutela dei diritti umani di tutte le parti «al robusto e indipendente sistema giudiziario di Israele».
Stupisce dunque lo scandalo che alcuni garantisti provano anche alla sola idea che ci siano i processi, dei giusti processi. Non sono dispute da giuristi, sofismi: sono la frontiera che il diritto, a ogni livello, pone tra una democrazia, il rischio della sua autodistruzione e la perdita della propria identità.