Södertälje, Rinkeby, Rosengård. Ma anche Brønshøj Nord, Itäkeskus o Jakomäki. Sono nomi che non dicono quasi nulla a un lettore italiano, ma nei grandi centri del Nord Europa hanno la fama di essere le aree con maggior presenza di immigrati, e anche quelle dove l’affluenza alle elezioni europee è tradizionalmente più bassa. Se n’è occupata anche l’Unione Europea attraverso il progetto Erasmus+ che, a Varna in Bulgaria, ha radunato un gruppo di “ambasciatori”, ovvero giovani, spesso di origine straniera, che dovranno provare a convincere i residenti a recarsi alle urne. Il caso limite, quello della sezione Ronna Nord a Södertälje, cittadina a sud di Stoccolma, ha visto partecipare nel 2019 solo il 12.8 per cento degli aventi diritto, a fronte di un già di per sé basso cinquantacinque per cento a livello nazionale.
Se le istituzioni europee guardano a queste aree per aumentare la partecipazione al processo democratico, soprattutto nei casi di persone a rischio esclusione sociale, c’è anche chi, la questione, deve affrontarla dal punto di vista del consenso. Si tratta dei partiti di sinistra, in particolar modo i Socialdemocratici, tradizionalmente forti in questi quartieri nelle tornate nazionali, ma che finiscono per perdere una parte consistente del proprio elettorato alle elezioni europee.
Nella tornata del 2024, dove, in riferimento alla possibile maggioranza Ppe, Ecr, Id, ogni voto e ogni seggio contano più del solito, i tre leader socialdemocratici nel Nord Europa guardano con fiducia al nove giugno, una data che potrebbe consegnare uno scenario inedito e piuttosto paradossale, se si pensa alla grande tradizione nordica, ovvero quello di una vittoria della socialdemocrazia in tutti e tre i paesi. Dall’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Ue a metà degli anni ‘90, non è mai successo.
In Svezia, Magdalena Andersson è forse quella con il primato più al sicuro, dato che è dal 1914 che i Socialdemokraterna non finiscono secondi in un’elezione nazionale e gli ultimi sondaggi, seppur in calo, davano il partito a più quattordici per cento sui Democratici Svedesi, alleati di Fratelli d’Italia nel Parlamento Europeo. Prima Ministra dal 2021 al 2022, è succeduta a Stefan Lofven, oggi presidente del Partito socialista europeo, e a lei si devono due elementi che hanno indubbiamente contraddistinto questo ritorno di fiamma dopo anni in cui, pur al governo, il partito aveva boccheggiato. Il primo è stato il via libera all’accesso alla Nato, poi concretizzatosi solo nella primavera di quest’anno in seguito alla rimozione del blocco turco, una decisione che ha interrotto oltre duecento anni di neutralità svedese in ambito internazionale. La seconda è stato il deciso cambio di rotta per quello che riguarda l’approccio nei confronti dell’immigrazione, anche alla luce della guerra fra gang che ha contraddistinto la Svezia nell’ultimo biennio.
Quest’ultima presa di posizione ricalca molto quella adottata già da tempo dall’altra protagonista femminile di questa storia, la premier danese Mette Frederiksen che, messa da parte l’ambizione di diventare la prima Segretaria generale donna della Nato, rappresenta un modello di leadership molto diverso rispetto a quello a cui, a lungo, i socialdemocratici in Europa erano abituati. Fortemente filo-occidentale e a tratti critica nei confronti dell’Ue (ma a lei si deve anche la fine dell’opt-out danese sulla difesa europea), Frederiksen oggi guida una grande coalizione con liberali e moderati.
A differenza di buona parte dei suoi colleghi di partito nel continente, Frederiksen si è anche distinta per un approccio piuttosto freddo nei confronti della questione palestinese. Assieme al ministro degli Esteri (ed ex premier) Lars Løkke Rasmussen, ha messo in chiaro che il riconoscimento del governo di Ramallah avverrà solo in seguito a negoziati, a una normalizzazione dei rapporti con Israele e al controllo di tutto il suo territorio, inclusa Gaza, contrariamente a quanto fatto già nel 2014 dalla Svezia e più recentemente dalla Norvegia, che hanno proceduto con il riconoscimento unilaterale. Dopo il 7 Ottobre, la premier danese aveva mostrato una forte vicinanza alla comunità ebraica del suo paese, spesso colpita da atti di antisemitismo. In Danimarca, i Socialdemocratici non primeggiano nel voto per il parlamento europeo dal 2009.
Meno conosciuto è il finlandese Antti Lindtman che, a differenza delle due, non è mai stato premier, ma è alla guida del partito dopo le improvvise dimissioni di Sanna Marin. I socialdemocratici finlandesi guidano i sondaggi anche grazie alla scarsa popolarità del governo di centro-destra, ma la fronda interna nei confronti del nuovo leader del partito è particolarmente accesa. Punto di riferimento della corrente riformista, Lindtman si è ritrovato sotto il fuoco amico con l’accusa di aver escluso dai vertici del partito i fedelissimi di Sanna Marin e di Krista Kiuru, che ne doveva essere l’erede.
Se per i Socialdemocratici rischia di concretizzarsi una vittoria nordica che, unita alle buone sensazioni del francese Gluckmann, potrebbe lanciare il partito nella rincorsa continentale ai Popolari di Ursula Von Der Leyen, gli esponenti nordici di Renew europe stanno vivendo queste settimane con il timore di lasciare per strada seggi fondamentali per impedire l’ascesa delle destre.
In tutti e tre i Paesi, i liberali si presentano divisi e, spesso, con percentuali poco soddisfacenti: in Svezia, sia il Partito di Centro (erede delle leghe agrarie) che i Liberali sono in caduta, specialmente questi ultimi, parte integrante del governo del conservatore Kristersson, sostenuto esternamente dagli Sverigedemokraterna. In Danimarca, la Venstre, storica formazione liberale, paga l’adesione al governo Frederiksen e i suoi consensi si stanno indirizzando verso Alleanza liberale che, a dispetto del nome, farà quasi certamente il suo ingresso nel Partito popolare. A tamponare le perdite, dovrebbero pensarci i Moderati di Rasmussen e i Radicali di Margrethe Vestager. In Finlandia, i Popolari di lingua svedese, anch’essi in crisi, puntano a recuperare consensi e confermare il loro unico seggio candidando la ministra dell’Educazione Anna Maja Henriksson, che ha già annunciato le dimissioni dal governo di Petteri Orpo per concentrarsi sulla corsa europea. Oltre a loro, il Keskusta, che però non dovrebbe riservare sorprese, confermando i due scranni ottenuti cinque anni fa.
Degna di nota è la quasi totale assenza di partiti vicini a Identità e Democrazia, l’eurogruppo di Matteo Salvini e Marine Le Pen che, nel Nord Europa, può contare solo sul Partito del Popolo danese: questi ultimi, incalzati dai Democratici danesi (aderenti a Ecr) e avendo perso terreno sull’immigrazione a causa delle posizioni della premier, sono scivolati ampiamente sotto la soglia di sbarramento dopo essere stati per alcuni anni protagonisti della politica di Copenhagen. D’altro canto, il timore nei confronti di Mosca è particolarmente efficace per tre Paesi che, quando non confinano direttamente con la Russia, si ritrovano a dover guardare le coste di San Pietroburgo a un mare di distanza. Si può ipotizzare a un possibile scouting dell’euroscettica Lista popolare, fondata dall’europarlamentare democristiana Sara Skyttedal in Svezia, assieme all’imprenditore, già socialdemocratico, Jan Emanuel: nonostante ciò, la Folklistan dovrà prima di tutto superare il difficile scoglio del quattro per cento, e poi sciogliere le riserve sull’appartenenza dei suoi esponenti a Strasburgo e Bruxelles.
Il voto europeo non coinvolge solo il trio di paesi nordici membri: in Norvegia, dove si voterà per le politiche nel 2025, Verdi e Liberali hanno annunciato l’intenzione di riaprire i negoziati per l’accesso (governando con l’unico grande partito teoricamente favorevole, i Conservatori), mentre in Islanda i sondaggi indicano un forte malcontento nei confronti del governo euroscettico e, contemporaneamente, una maggiore volontà popolare per favorire l’ingresso di Reykjavik nell’Unione.