Nel 2022, secondo l’Istat, solo il 21,7 per cento della popolazione residente in Italia ha visitato almeno un museo, una mostra o un’area archeologica. E se, al contrario, fosse direttamente il museo a visitare gli italiani e ad aprirsi ai centri urbani, diventando un “terzo spazio” in cui coltivare relazioni, socialità e idee?
Viviamo nell’era della privatizzazione sfrenata delle città. Nei centri storici costellati di dehors aprono solo ristoranti, bar o store di brand internazionali, mentre le librerie, i cinema, i teatri e gli spazi gratuiti della cultura chiudono o sono costretti a ridimensionarsi, arrendendosi alla standardizzazione di metropoli sempre più in balìa del turismo di massa e del consumo mordi e fuggi. In questo contesto, una piccola-grande rivoluzione del modo di vivere e strutturare i musei sarebbe una risposta forte.
Gli spazi che ospitano installazioni, mostre temporanee o permanenti non stanno vivendo una crisi in termini di incassi (nel 2023, in Italia, sono aumentati del trentaquattro per cento rispetto al 2022 e del trenta per cento rispetto al 2019), ma hanno bisogno di una svolta votata alla qualità e non alla quantità.
A tracciare i contorni di questo cambiamento sono stati i designer e architetti Ico Migliore e Mara Servetto (Migliore+Servetto), che hanno pubblicato un libro-manifesto intitolato “Museum seed” (Electa), il museo seme. «È un’idea nata poco più di dieci anni fa durante un viaggio in Cina, dove con altri architetti giravamo su queste autostrade nuovissime che si affacciavano su paesini che dovevano essere modificati o demoliti per lasciare spazio alle estensioni delle metropoli. Lì ho cominciato a capire che un museo non dovrebbe essere un contenitore, ma dovrebbe germogliare dal territorio», racconta a Linkiesta Etc Ico Migliore, che ha presentato il progetto anche durante la seconda Biennale dello Stretto.
«I musei, aprendosi, possono generare prima di tutto attività professionali, perché ci sono un sacco di giovani storici dell’arte che non sanno cosa fare e che potrebbero andare lì a lavorare, a raccontare. Ma non solo: i musei devono muovere più il palinsesto, essere luoghi in cui ritornare, andare a leggere un libro, a lavorare al computer o a fare due chiacchiere. Proprio come una piazza», continua Migliore, specializzato in progettazioni museali e tre volte premiato, insieme a Mara Servetto, con il Compasso d’Oro.
Il concetto di museo come luogo in cui ritornare è l’antidoto all’approccio bulimico alla base dei musei-cassetto, che si limitano a proporre – senza raccontare – un’enorme quantità di opere a cittadini di fatto inconsapevoli. In questi casi, l’unica opzione a disposizione del visitatore è l’abbuffata, che non crea valore né da una parte, né dall’altra.
Per cambiare i musei serve una collaborazione strutturata tra figure professionali diverse, ed è per questo che il manifesto di “Museum seed” è frutto del dialogo tra curatori, critici d’arte, psicologi, esperti in neuroscienze e in accessibilità. Ma secondo Ico Migliore, che è anche professore associato nel dipartimento di Design del Politecnico di Milano, «la visione registica deve appartenere al designer di interni», da cui deve partire il nuovo paradigma.
Chi si occupa di allestimenti museali dovrebbe acquisire una sorta di approccio urbanistico, così da rendere questi luoghi più aperti alla cittadinanza (come se fossero giardini o piazze). «I musei dovrebbero essere dei luoghi di ritrovo. Spesso in Inghilterra puoi starci tutta la giornata. In Corea del Sud ho visto quasi dei musei-biblioteca, dove puoi anche andare con il tuo computer. Qui in Italia, invece, abbiamo una concezione di museo un po’ triste, polverosa: esistono musei dove ti senti respinto, e musei luna park con grandi effetti speciali e proiezioni da tutte le parti. Bisogna trovare una via di mezzo», propone Migliore.
Il museo può diventare un luogo aperto e inclusivo anche grazie a nuovi ragionamenti attorno alla presentazione delle collezioni: «Quelle permanenti e quelle temporanee sono spesso slegate e poste in sale diverse. Secondo noi sarebbe molto più interessante integrare alcuni racconti – approfonditi – nella collezione permanente. Così il visitatore torna a vedere la singola opera, che magari ogni mese viene raccontata in maniera diversa», dice il designer. I vantaggi sarebbero molteplici: l’utente memorizza meglio il quadro che vede, diventa più consapevole e viene fidelizzato.
Ico Migliore ha citato l’esempio di un piccolo museo in Costa Azzurra, la Fondazione Hartung Bergman, la casa dei due artisti quando erano in vita: «Ora è aperta al pubblico, ha un giardino e un piccolo bar. E si possono anche vedere i loro atelier. Quando vai là, stai bene. È un museo lentissimo in cui ti senti ospitato perché puoi capire davvero le tecniche, i riferimenti e le visioni dei due artisti».
Anche l’Adi Design Museum di Milano, progettato da Migliore assieme a Mara Servetto e Italo Lupi, «ha una concezione dinamica e non ti allontana, perché puoi andare lì e capire come mai certi oggetti sono parte integrante della nostra vita». Un altro caso virtuoso è quello del Victoria and Albert Museum (V&A) a Londra, che da anni lavora sul tema dell’accessibilità a trecentosessanta gradi: «È un grande spazio comune dove puoi fermarti e trascorrere una giornata», racconta Migliore, che chiude la nostra chiacchierata con un aneddoto che i musei bulimici – come gli Uffizi – dovrebbero memorizzare.
«Il professor Paolo Inghilleri, presente nel libro, mi ha raccontato di questo ragazzino arrivato in Italia dall’Egitto in una situazione un po’ complessa. Era un po’ bullizzato. Un giorno è andato a visitare il Museo Egizio di Torino, dove non si espongono solo oggetti, ma si dà tanto spazio al racconto di una cultura straordinaria. Si è meravigliato dello spazio e dell’attenzione che l’Italia ha dato al suo Paese, si è sentito gratificato e nobilitato. Tutto ciò lo ha fatto stare meglio. Questi spazi servono all’innovazione sociale e alla sostenibilità sociale, non a collezionare cose preziose e tenerle in un cassetto». Il museo, in quel caso, è diventato un vero e proprio luogo di cura, che è uno degli otto punti del manifesto di “Museum seed”.