Sotto la cenereI danni incalcolabili di una giurisprudenza piena di pregiudizi

Le sentenze dei Tribunali di Roma e Milano sulla capitale di Israele e sulla «plausibilità» del genocidio a Gaza sono pericolose per i risultati, quindi per le loro conseguenze, ma soprattutto per i criteri antisemiti che hanno guidato i giudici nelle loro decisioni

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Che cosa accomuna la sentenza del Tribunale di Roma che, qualche settimana fa, ordinava alla Rai di dichiarare che Gerusalemme non è la capitale di Israele, e l’ordinanza del Tribunale di Milano che, nel marzo scorso, parlava di «plausibilità» del genocidio a Gaza perché la Corte Internazionale di Giustizia l’avrebbe definito «plausibile»?

Facilmente si potrebbe dire che ad accomunare quelle due disinvolte esibizioni della nostra giurisdizione è un disastroso difetto di aderenza fattuale e giuridica: in un caso le risoluzioni dell’Onu e le faq ministeriali adibite e fonte di diritto (questo faceva il giudice romano quando indugiava sulla “falsità” dell’indicazione di Gerusalemme quale capitale di Israele); e nell’altro caso l’invenzione di un argomento spacciando che fosse certificato da ciò che avrebbe detto un altro giudice, che invece non l’ha detto (questo faceva il giudice milanese quando attribuiva alla Corte dell’Aia di essersi intrattenuta sulla “plausibilità” del genocidio, cosa che la Corte non ha mai fatto).

Ma non è solo quella comune trascuratezza a denunciare i tratti identitari di quei due provvedimenti di giustizia. Quella è la superficie, la scorza di frutti ben più profondamente, e identicamente, malati nel gheriglio. Ad avvelenarli è, puramente e semplicemente, il pregiudizio: quello che non avrebbe indotto il giudice di Roma a esercitarsi in una simile, spericolata operazione se la capitale in discussione non fosse stata quella dello Stato ebraico; e quello che non avrebbe indotto il giudice di Milano a inventarsi un presunto precedente se la presunta, e in realtà inesistente, «plausibilità» del genocidio non avesse riguardato le presunte responsabilità dello Stato degli ebrei.

Proseguiamo e mettiamone altre due a confronto. Da un lato l’ordinanza – ancora una volta del Tribunale di Roma – che autorizza l’addebito di «strumentalizzazione del corpo femminile» nei confronti di chi parla di femminicidio a proposito dello stupro e dell’assassino delle donne ebree il 7 ottobre. Dall’altro la decisione – ancora una volta del Tribunale di Milano – secondo cui sarebbe «fatto notorio» la «sanguinosa punizione collettiva» che Israele avrebbe inflitto e continuerebbe a infliggere alla popolazione palestinese. Che cosa fa simile un provvedimento all’altro? La sciatteria che si squaderna, a Roma, nella legittimazione del doppio standard sulla violenza di genere e, a Milano, nella trasfigurazione in «fatto notorio» dei convincimenti politici del giudice? No, o per meglio dire quella è nuovamente una similitudine di superficie, di risultato. Ma a unire e confondere in uno stesso costrutto quei due interventi di giustizia è ancora l’identico pregiudizio: il pregiudizio che avrebbe impedito al giudice romano di legittimare quello sproposito se fossero state di Fregene, di Chivasso o di Torre Annunziata quelle donne stuprate e assassinate; il pregiudizio che avrebbe impedito al giudice milanese di giudicare in quel modo se non si fosse trattato, come invece si trattava, del caso che consente di giudicare sulla scorta di un convincimento politico elevato a fatto notorio. Giusto come è notorio che la capitale di Israele non è Gerusalemme perché lo dice una risoluzione dell’Onu: che non l’ha detto e che, se pure lo avesse detto, sarebbe come se l’avesse detto la zia del panettiere di quel giudice.

È inutile domandarsi che cosa sia più dannoso in questa giurisprudenza: se, cioè, sia più pericoloso ciò cui essa perviene o, invece, il pregiudizio che la determina. Il focolaio che, se non spento, promette un incendio più vasto è cosa più grave rispetto alle ingiurie patite dai primi ustionati.

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