«Su Panorama, una lettera aperta di Alberoni a Ferrara: perché non mi inviti nella tua trasmissione sull’amore? Ce le ho delle cose da dire e ben lo sai. Perché non mi inviti? Ti ho già scritto un’altra lettera, non mi hai nemmeno risposto. Rispondi almeno a questa, te ne prego». Lo scrive nel 1992 Beniamino Placido, allora critico televisivo di Repubblica, in una rubrica alla quale penso in continuazione.
Ci penso ogni volta che qualche derelitto intervistatore, derelitto opinionista, derelitto giullare di questo secolo in cui non esistono i non derelitti e i non giullari, ogni volta che uno di questi sul suo canale YouTube (ne hanno tutti uno) o nel suo podcast (ne hanno tutti uno) dice mi raccomando, se vi piace quel che sentite (e si capisce che vorrebbero dire: e anche se non vi piace, a me servono i numeri, mica i complimenti) cliccate like, attivate gli avvisi dei nuovi contenuti, seguite il canale, fai una giravolta, falla un’altra volta.
La prima volta l’ho sentito dire da Luca Bizzarri, che evidentemente eseguiva l’ordine aziendale di dire mettete la stellina, schiacciate la campanellina, ma essendo uno di noialtri cui viene da ridere lo faceva a modo suo, e dopo l’invito serio si faceva il verso: le stelline, la campanellina. Gli altri, tragicamente, tutti seri. Dovesse servirmi una scusa per non ascoltare i podcast, posso dire che è per risparmiarmi adulti che elemosinano stelline e campanelline.
Penso a quel corsivo di Placido a ogni «cagatemi», e da quando abbiamo l’internet in tasca i «cagatemi» sono continui. Oliviero Toscani è morto: ho qui una foto che mi fece, cagatemi. Cecilia Sala è in galera: vi racconto di quella volta che l’ho incontrata, cagatemi. È tutto le stelline, tutto la campanellina: tutta disperazione che, c’insegnava Cosmopolitan quand’eravamo piccine, non è seduttiva.
Ma da qualche giorno penso a quel corsivo di Placido su Francesco Alberoni per un’altra ragione. Il motivo per cui lo facevano ridere le smanie televisive di Alberoni era che Alberoni era un docente universitario, e Placido si muoveva nel secolo in cui l’università era ancora un’istituzione rispettabile.
«Nel Corriere della sera dello stesso giorno, in prima pagina, Alberoni forniva una spiegazione teorica della sua ansia televisiva. “Sono i mattatori della Tv i nuovi opinion leaders”. Questo il titolo della sua rubrica. Che concludeva così: “E gli intellettuali, i filosofi dove sono finiti? Si sono rinchiusi nelle accademie. Ma non tradiscono in questo modo il loro dovere?”»: non sapevano, Alberoni e Placido, che trent’anni dopo, in un documentario su George Carlin, alle categorie avrebbe fornito nuova catalogazione Chris Rock.
I comici, diceva Rock, sono i nuovi filosofi, anche perché i filosofi chi li legge più. E infatti i comici ormai ci spiegano il mondo, mentre la comicità immediata e scema che quando eravamo piccoli spettava ai comici televisivi ora è territorio dei meme. Ma non sapevano neanche, Alberoni e Placido, di stare anticipando di trentatré anni un certo dibattito.
È accaduto infatti poco prima di Natale che un tizio che non so chi sia – ma leggo che insegna sociologia economica all’università di Torino – abbia annunciato su Twitter (o come si chiama ora) che la sua richiesta di congedo sabbatico era stata approvata: «Da settembre 2025 a settembre 2026 sono esentato dalla didattica e dagli obblighi istituzionali. Sono libero di studiare e scrivere, a stipendio pieno. Così dovrebbe essere anche per altre professioni». Poiché, se lui aveva bisogno di attenzioni scrivendolo, gli altri erano ben lieti di distrarsi dandogliene, si è scatenato il previsto putiferio.
Quelli che è uno schifo, con le nostre tasse. Quelli che è giusto, dovrebbe essere così per tutti i mestieri (il sabbatico alla cassiera di Sephora per aggiornarsi sui lucidalabbra, quello al netturbino per andare a visitare città meno zozze delle nostre e imparare come si fa). Tutti che strillano, e nessuno che chiede l’ovvio: ma perché, i professori universitari normalmente, quando lavorano, non studiano e non scrivono? Sono gli unici con mestieri intellettuali a non esercitare l’intelletto? Vivono come i cardiochirurghi e i baristi che cara grazia se leggono due pagine d’un romanzo la sera prima d’addormentarsi sbavando sulla copertina?
Il giorno dopo il signore, evidentemente competitivo con Elon per il ruolo di troll, ribadiva: «Per fare cosa? Scrivere? Spero un pò meno in verità. Scrivo pure troppo. Potrei NON scrivere nulla per qualche anno e rimanere entro le “soglie” richieste». Sì, le mie tasse servono a mandare i vostri figli in università dove insegni loro non so bene cosa qualcuno che non è stato attento alle elementari abbastanza da imparare a scrivere «po’». Ma fin lì non mi è venuto in mente Placido, è servito qualche altro giorno.
Una settimana fa Claudio Giunta ha scritto sul Post un breve articolo sull’università che ha appiccato alle code di paglia dei divulgatori (qualunque cosa significhi questa parola) più incendi di quelli che il vento di gennaio ha portato a Malibu. Giunta comincia l’articolo raccontando che a settembre ha fatto questo e quello, ha intervistato Walter Siti, ha consegnato un libro, ha tenuto una conferenza su Kafka. «Il fatto è che nel mese di settembre io non ho mai visto uno studente, non ho fatto lezione, non ho corretto tesi, e non ho quasi avuto il tempo di studiare».
Divulgare però è, rispetto ai tempi di Beniamino Placido, un’attività che è stata codificata come dovere dei docenti universitari: «Terza missione», apprendo chiamarsi da Giunta. Mi chiedo se ci rientri tutto: i tweet del tizio di Torino, o Giunta che va a parlare con Linus e Savino di Taylor Swift, o un Alberoni di oggi che solleciti inviti in tv (o a qualche diretta su TikTok).
Formare gli studenti, scrive Giunta, «coi numeri attuali è molto difficile e richiede molto impegno, impegno che proprio per questo non andrebbe diluito con altre iniziative magari più appaganti (presentare il proprio ultimo libro a un pubblico di adulti colti è più appagante che correggere gli scritti di un post-adolescente non colto)».
Certo che prendere i cuoricini sui social è, oltre che maggior fornitura di dopamina, anche maggior garanzia che un editore mi chieda un libro (i docenti universitari sono una categoria abbastanza piccoloborghese da ambire a pubblicare coi grandi editori) di quanto lo sia lo spiegare qualcosa a quei ciucci di studenti senza che la spiegazione finisca in uno straccio di reel, scrive in sostanza Giunta, il problema è che mi pagano per rendere i ciucci meno ciucci, mica per farmi bello.
I fienili che certuni hanno in luogo del culo – per i più spicci: le code di paglia – vanno così a fuoco che sui social si leggono malumori perché, suvvia, lo sappiamo tutti che se non prendi gettoni per andare a parlare a festival, gettoni per fare l’ospite televisivo, gettoni per la terza missione che è persino più succulenta del terzo “Mission: impossible” (quello con Philip Seymour Hoffman), se fingi di disprezzare la terza missione è perché non sei abbastanza bravo da monetizzarla, sei «uno studioso mediocre che non lega con il pubblico».
E quindi, proprio quando ci sembra che non possa essere più diverso dall’oggi il 1992 – un anno in cui non c’erano migliaia di festival culturali, in cui la tv aveva centralità non esistendo i social, in cui un titolo di studio significava ancora qualcosa – proprio allora torna buono quel Placido.
«Abbiamo qui una nuova definizione (la prima dopo Max Weber) del mestiere dell’intellettuale: scrivere lettere (raccomandate) ai conduttori televisivi perché li ospitino nelle loro trasmissioni. Cerchiamo di esprimere tutto il nostro dissenso (è totale) dalla tesi di Alberoni. Se la chimica, la fisica, la storia medievale, la metrica latina si studiano nelle Università, è nelle Università che i loro cultori devono stare. E lavorare. Per impedire che il mondo diventi un universo tutto – e superficialmente – televisivo».
Beniamino Placido è morto nel 2010, beato lui. Prima di vedere il mondo nuovo, quello dove un professore che chiede d’essere ospitato in tv a parlare del proprio libro è il cascame d’un rigore da guerra fredda. Prima di questo mondo qui, in cui un sociologo sessantenne di buon successo vorrà come minimo andare a “Masterchef” a fare due uova come le faceva la sua mamma, o ancora meglio a Sanremo, da dove può tornare col primato accademico d’essersi fatto una foto con Giulia De Lellis (due file ben ordinate: gli accademici che dicono «chi??», e quelli che ritengono che la quarta missione sia sapere i nomi di tutto il demi-monde social).