«Sabato pomeriggio. Via Condotti sembra una strada di Tokio. Una massa compatta di gente tutta uguale avanza macchinalmente, come su un nastro trasportatore. Intravedo Gianni Battistoni, dietro i vetri della boutique di Hermès, che osserva i passanti spaventato. Sembra il re di una monarchia superstite che si è accorto che il popolo si prepara a tagliargli la testa» (Enrico Vanzina, Le finte bionde, Mondadori 1986).
Nello stesso anno in cui Enrico Vanzina si chiedeva perché i bestseller non fossero mai letti dai best reader, a Roma si svolgeva una scena di lotta di classe a piazza di Spagna. McDonald’s apriva lì il suo primo locale italiano, uno scempio inaccettabile per la borghesia del centro di Roma (un’idea astratta quant’altre mai: il centro di Roma è piazza di Spagna, ma anche il Pantheon, ma anche Trastevere, e già così le distanze renderebbero insensato ritenerlo un unico quartiere; ma, secondo il romano che si ritiene sempre residente «a cinque minuti da piazza del Popolo», sono centro anche san Giovanni, san Lorenzo, i Parioli: Roma è un posto dove un giorno un padre ha portato il figlio allo Zodiaco, il bar di Monte Mario, e guardando di sotto gli ha detto «un giorno tutto questo sarà centro»).
Nello stesso 1986 Clint Eastwood divenne sindaco di Carmel, paesino californiano, e chiuse i fast food; fu così che artisti residenti a Roma decisero che il loro punto di riferimento era un destrorso che faceva i film con gli spari: la più bella immagine di dissonanza cognitiva che si sia mai vista è una foto di Claudio Villa e Giorgio Bracardi, a piazza di Spagna, col cartello «Clint, dovresti essere il nostro sindaco».
Il sindaco invece era un democristiano che non impedì ai periferici d’andare a mangiare una polpetta a poco prezzo; perché era ovviamente quello, il punto: non la difesa del chilometro zero e del cibo biologico e della cucina stellata – tutte istanze che peraltro allora avevano assai meno spazio di ora – ma l’evitare che orde di periferici si riversassero a imbruttire il quartiere dei ricchi.
Valentino, il cui atelier è a pochi metri da dove i barbari s’insediarono a friggere patatine, argomentava che gli avrebbero impuzzolentito le sete. Renzo Arbore andava provocatoriamente a mangiare fettuccine davanti alle loro vetrine (è peraltro più facile mangiare un decente pollo fritto da McDonald’s che una fettuccina dignitosa in una delle centinaia di trattorie per turisti del centro di Roma).
Trentaquattro anni dopo, sembra che questa scena di lotta di classe sia metà della formula su cui si regge l’ultima edizione della polemica in cui ci siamo specializzati.
Il format è identico da anni: nella prima metà, un conservatore scrive cose da conservatore (che sia un Papa che dice qualcosa contro l’aborto o Dacia Maraini che racconta uno scippo, poco importa: è un pretesto per farci sentire migliori dicendoci progressisti); nella seconda metà, insorgiamo indignati: come sarebbe, il capo della chiesa cattolica è cattolico?
Ieri la prima metà era rappresentata da Ernesto Galli della Loggia, che ha scritto un articolo sui periferici che invadono il centro per accaparrarsi non l’hamburger ma il mojito. Entrambe le cose, hamburger e mojito, si trovano ormai anche in periferia, ma, dice l’editorialista del Corriere della sera, questi monatti vengono a prenderlo in centro come forma di presa della Bastiglia. Seguono stralci.
«Con ancora maggiore urgenza la pandemia ripropone il tema delle periferie. Infatti, da dove pensiamo mai che provengano in larga maggioranza le turbe di giovani che dappertutto stanno agitando le notti italiane di questa estate?» (credo intendesse «le torme», o forse sta proiettando).
«Da dove, se non dalle invivibili periferie, dagli sperduti quartieri dormitori, dalle strade male illuminate che finiscono nel nulla?» (un paio d’anni fa ebbe grande successo una commedia ambientata in borgata che era chiaramente stata scritta da gente mai uscita dal quartiere Prati. Alle borgatare, invece di Maria De Filippi, gli sceneggiatori facevano guardare Franca Leosini, tipico consumo da ceto medio riflessivo. Ecco, le strade che finiscono nel nulla di Galli della Loggia ricordano un po’ quel film. O anche uno di Clint Eastwood, a scelta).
«Ormai è diventato un rito. Al calar d’ogni sera, specie nel fine settimana, quei giovani si rovesciano nelle piazze, nei centri storici delle città, e sembrano farlo come posseduti da un desiderio di rivalsa che oggi si manifesta nella volontà d’infrangere tutti gli obblighi e le precauzioni sanitarie, di farsi beffa in tal modo di ogni regola di civile convivenza» (si rovesciano, forse era questa l’invasione delle cavallette che accampava John Belushi per aver lasciato Carrie Fisher all’altare).
«Li muove, si direbbe, quasi il torbido proposito di seminare il contagio, d’infettare la società “per bene” insieme ai posti che essa abita. Di distruggere quanto non possono avere» (muoia Maria Antonietta con tutte le brioche).
Dice l’editorialista del Corriere che ci sono «tanti elettori spinti a diventare sovranisti, populisti e anticasta per la rabbia di abitare dove i servizi sono assenti, i trasporti paurosamente insufficienti», epperò se l’autobus che non passa ti fa diventare sovranista non si capisce come mai Salvini a Roma non abbia il cento per cento dei consensi.
D’altra parte l’autobus che non passa fa anche capire come mai a Roma ci siano più motorini che a Caracas: è il tipico terzomondismo del periferico che non può venire in centro a infettarci coi mezzi pubblici, e gli tocca pure spenderci soldi di benzina (altro incentivo al sovranismo).
Poiché non sappiamo più ridere, neanche di fronte a ottimo materiale comico, abbiamo passato la giornata di ieri a indignarci. Un filamento di dibattito riguardava persino la cancel culture: lo vedete che non esiste, se esistesse un meccanismo di cancellazione dei pensieri impresentabili questo articolo indecente non sarebbe mai stato pubblicato.
Come se l’idea di eliminare la borghesia cui fanno raccapriccio i poveri non fosse velleitaria quanto l’idea di eliminare i poveri da dentro la ztl (zona a traffico limitato, per non parlanti la lingua indigena del lungotevere).
Mentre Galli della Loggia fantastica di «arma della rappresaglia, quella delle spedizioni punitive notturne senza mascherine e sputando sui citofoni dei fortunati che abitano in centro» (lo capisco, anch’io ho avuto un portiere romano: non lucidano mai i citofoni, a qualcuno devi pur dare la colpa), noi ci scandalizziamo come neanche quella volta che disse (sempre lui, Ernesto delle Polemiche Ridicole) che i professori non erano più autorevoli da quando la cattedra era scesa dal predellino.
I romani, indignati perché ritengono comunque d’abitare in centro, mica d’andarci il sabato sera come hanno fatto tutti prima e dopo John Travolta aspirante ballerino; noi d’altre parti, indignati perché come osa parlare con tanto disprezzo dei poveri, chi crede d’essere, lo sceneggiatore d’un rifacimento di Romanzo popolare?
Insomma: giochiamo la nostra parte nel gioco delle parti. Anche oggi postmoderni, anche oggi convinti che l’alternativa a una ridicola analisi del conflitto di classe sia negare che il conflitto di classe esista.
«Ricordo che molti anni fa, a casa nostra, quando a tavola mio padre e mia madre non volevano farsi capire dalla cameriera conversavano in francese. In quegli anni, le cameriere erano sarde o venete, molto spesso ciociare… Oggi, a casa dei miei genitori, c’è una sarabanda di cameriere filippine che parlano inglese, francese, qualcuna anche lo spagnolo. Così, per discorrere dei fatti loro, mio padre e mia madre sono costretti a parlare in ciociaro» (Enrico Vanzina, Le finte bionde).