Il mondo del lavoro cambia continuamente nel tempo, anche nei periodi di calma, cioè di crescita più o meno sostenuta. Le crisi poi possono certamente accelerare alcune tendenze già in atto, o portare a inversioni a U, ma spesso vengono influenzate dai movimenti sotterranei, poco visibili nel breve periodo, intervenuti negli anni precedenti.
È quanto è accaduto anche nel caso dell’Italia e dell’Europa. Dopo la Grande Recessione che ci ha colpito tra il 2009 e il 2013, è cominciata la trasformazione del lavoro. Il dato saliente è che ha separato ancora di più l’Italia dal resto d’Europa.
Qui, tra il 2011 (il pieno della crisi) e il 2019 (alla vigilia del Covid), il numero degli occupati è cresciuto del 3,7%. Ma è una media fatta di evoluzioni molto diverse.
Sono crollati gli artigiani e gli operai specializzati, diminuiti del 16,4%, nonché i dirigenti, scesi dell’11,3%. Il calo ha interessato gli agricoltori, – 6,5%, e anche gli addetti ai macchinari, cioè gli operai classici.
Al contrario sono aumentati moltissimo (il 17,7%) i professionisti, categoria vasta che comprende avvocati, insegnanti, medici, consulenti informatici, ma sono cresciuti allo stesso tempo anche i lavoratori nel commercio e quelli impiegati in professioni non qualificate, rispettivamente del 15,5% e del 14%
Dati Eurostat
In termini assoluti parliamo della perdita di circa 600mila artigiani e operai specializzati, avvenuta soprattutto tra 2011 e 2017, ma non recuperata con la ripresa successiva. Allo stesso tempo vediamo l’incremento di più di 750mila occupati nel commercio, nei servizi e nelle attività in cui è necessario personale non qualificato.
Il risultato è che alla vigilia del terribile 2020 i lavoratori non qualificati erano, in Italia come in Spagna, più del 10%: numero maggiore rispetto a Francia e Germania. Lo stesso vale per i commessi nei negozi, i camerieri, i ristoratori, mentre erano di meno i lavoratori impiegati in mansioni tecniche intermedie, comprese quelle in cui sono attivi anche professionisti. Si tratta dell’ingegneria, l’architettura, le professioni legali. Ma sono esclusi dirigenti e autonomi, come i titolari di uno studio d’avvocato.
Dati Eurostat
Il punto centrale è che per arrivare a questa diversa conformazione del mondo del lavoro i Paesi europei hanno seguito trend molto diversi. Il che dice molto dell’evoluzione economica dell’Europa e del declino italiano.
Basti notare che se nella Ue, in media, i lavoratori non qualificati sono aumentati solo del 2,2%, cioè meno della media complessiva del 6,7%, e in Germania sono cresciuti dello 0,1%, l’Italia è andata in completa controtendenza con un +14%. Lo stesso vale con gli occupati nel commercio: +15,5% in Italia e +0,4% in Germania, mentre totalizzano +5,8% nella Ue.
Gli agricoltori sono calati meno in Italia, -6,5%, rispetto all’Unione Europea, -17,6%. In più, in Germania e in Europa non si è registrato alcun crollo del numero degli artigiani e degli operai specializzati, cosa invece avvenuta nel nostro Paese. In Germania tra l’altro i tecnici sono cresciuti del 22,2%, e in Italia solo del 3,2%.
Dati Eurostat
Queste enormi differenze indicano che nel tempo l’economia italiana ha cercato di ovviare alla cronica bassa produttività e alla carenza di investimenti concentrandosi su settori con margini inferiori, in cui appunto non erano necessari grandi investimenti. Abbiamo perso così il treno della rivoluzione informatica e digitale, dove siamo più consumatori che produttori.
Anche negli ambiti in cui eravamo in prima fila, come la manifattura e l’industria del B2B, abbiamo arrancato. La crescita non è bastata ad aumentare il numero di lavoratori nel settore. Ma è soprattutto nei servizi avanzati, quelli che trainano ovunque l’economia del XXI secolo, che non siamo riusciti ad emergere.
Non a caso è quella produttività a essere largamente inferiore rispetto agli altri Paesi, più ancora più che quella nell’industria.
Tra le conseguenze si registra l’aumento di magazzinieri e corrieri, che ci portano l’ultimo tablet uscito, e non quello di informatici e ingegneri che progettano il sistema operativo del tablet stesso o i software che regolano la logistica della “gig-economy”.
Lamentarci poi dello strapotere e del successo di Amazon è poco produttivo se non capiamo che il problema è nostro. Non siamo riusciti ad eccellere nel settore digital ed informatico, non abbiamo incrementato posti di lavoro ad alto salario, i quali con la domanda che avrebbero generato avrebbero potuto ben compensare l’impatto dell’e-commerce nel sistema, cosa che del resto avviene nel resto d’Europa, dove pure Amazon prospera, e non provoca povertà e disoccupazione, anzi.
Cosa comporta essere un Paese con sempre più camerieri invece che operai specializzati? Dal punto di vista economico è chiaro: minori salari, meno consumi, crescita del Pil più bassa, come abbiamo visto.
Dal punto di vista anche sociale vuole dire una carriera più precaria, basata su competenze sostituibili, e attività e aziende più piccole e vulnerabili. Non a caso il livello del risparmio, che una volta vedeva l’Italia in cima alle classifiche mondiali, è diminuito negli anni, anche durante la ripresa. Soprattutto, comporta una maggiore fragilità di fronte alle crisi. Cosa che quella del 2020 mostra bene.
La diminuzione dell’occupazione tra 2019 e 2020 (tra i due secondi trimestri in particolare) è stata maggiore nel nostro Paese – del 3,6%, contro quella dell’1,9% in Francia e del 2,4% nella Ue – non solo perché i lavoratori del settore del commercio, per esempio, hanno subito una riduzione più importante che altrove ma perché in questo era occupata una porzione più grande di lavoratori che altrove.
Naturalmente è intervenuta la sfortuna: la crisi del 2020 ha colpito in modo molto più diseguale delle altre, sacrificando i settori a contatto con il pubblico.
Ma non è solo questo: c’entra anche il fatto che tali settori erano già meno solidi e con un numero superiore di lavoratori, e che tra i lavoratori stessi coloro che avevano una specializzazione da spendere anche in tempo di crisi erano meno che altrove.
Si tratta di una lezione da imparare per il futuro: le competenze non servono solo a far guadagnare di più coloro che le possiedono, ma a proteggere tutta un’economia dai rovesci della sorte.