Usate l’emoji che piange dalle risate? Smettete subito, è roba da vecchi. Lo stesso vale per la riga dei capelli di lato e i jeans stretti. Sono tutte caratteristiche che contraddistinguono i Millennial (leva che va dal 1980 al 1996) e che i ragazzi della Gen Z, nati dopo il 1996 e ormai sulla cresta dell’onda di social come Tik Tok, rifiutano in modo categorico. Fate largo: adesso dettano loro le regole e l’emoji-che-piange-dalle-risate è la loro vittima numero uno.
C’è da capirli. Più o meno nativi digitali, sono cresciuti avendola ogni momento davanti agli occhi. L’emoji-che-piange-dalle-risate è tuttora la più usata e abusata al mondo, tanto da finire in cima alla lista di Emojipedia per tutto il 2020 (cosa ci sarà stato da ridere poi).
Come spiega alla Cnn la linguista Gretchen McCulloch, autrice di “Because Internet: Understanding the New Rules of Language” l’emoji è «vittima del suo stesso successo. Se per anni e anni la risata digitale viene rappresentata sempre allo stesso modo, a un certo punto comincia a sembrare insincera». Si sa: un’iperbole normalizzata è solo retorica. E stufa.
I Millennial, con le loro abitudini imbarazzanti, hanno scoperto con dolore di essere il “Buongiornissimo Caffè” della situazione. La ruota gira.
Per i giovani della Generazione Z la risata con lacrime è solo fonte di imbarazzo. Meglio usare un teschio (sinonimo figurato di “I die” – in Italia: “Mi fa morire [dalle risate]”) oppure l’emoji che piange e basta, segno di una emozione ancora più travolgente e che rasenta il paradosso. Quell’altra, che piace così tanto ai matusa 2.0, «non è roba nostra, usatela voi».
È uno smarcamento minimo ma rivelerebbe, in realtà, una frattura più profonda: i Millennial utilizzano le emoji in maniera letterale. Se piange, sei triste. Se ride, sei felice. Modalità coerente, semplice, chiara. Noiosa.
I rappresentanti della Generazione Z hanno invece un approccio creativo. Le immagini cambiano di senso, subiscono associazioni libere, sono piegate a utilizzi sarcastici personalizzati. Non dichiarano, alludono. E vanno interpretate. Ad esempio, per indicare la goffaggine, usano l’emoji della persona che indossa un cappello da cowboy (è presa alla lontana). Oppure quella di una persona che sta in piedi e basta (chissà perché).
È quasi una legge di natura, insomma, che ogni generazione crei un proprio gergo e sviluppi una propria fisionomia collettiva, con cui si auto-rappresenta.
Ed è altrettanto inevitabile che prima o poi ogni generazione entri in conflitto con quelle precedenti, provocando piccole crisi di identità e ribaltamenti: adesso siamo noi quelli vecchi, si chiedono i Millennial che usano la faccina-che-piange-mentre-ride?
La risposta – poco italiana – è sì. La bellezza dell’asino (beauté de l’age) è ormai passata ad altri, quelli dopo, che la esercitano nelle forme e nei limiti della loro generazione. Moda, emoji, capelli. E appunto, asinerie: come fare gare a chi mangia il detersivo per lavatrice.